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ECO-Anniversary /1

  08/05/2023

Di Redazione

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75 anni fa…

…come oggi, venivano resi noti i risultati delle prime elezioni politiche generali per l'elezione dei deputati e dei senatori della Repubblica. Poco meno di due anni prima, si era celebrato un referendum istituzionale, nel quale aveva rocambolescamente vinto la repubblica, e l'elezione della Costituente, con la partecipazione, per la prima volta, delle donne. Per la Costituente la Democrazia cristiana aveva raccolto il 35,21, il Pci il 18,93 e il Partito socialista di unità proletaria il 20,68. Quando si trattò di eleggere il Parlamento, nel 1948, erano avvenuti alcuni cambiamenti fondamentali: il Partito socialista di unità proletaria aveva subito la scissione di Palazzo Barberini (gennaio 1947). In essa la frazione socialdemocratica, che si ispirava all'insegnamento di Leonida Bissolati (fondatore e leader del Partito socialista riformista, ben distinto dal Psi a maggioranza massimalista), si era costituita in partito scegliendo come proprio leader Giuseppe Saragat. Il Psi s'era avvicinato al Pci, tanto da presentarsi alle elezioni del 1948 con liste unitarie (Fronte popolare, il volto di Garibaldi nel simbolo) a immagine e somiglianza di quanto era accaduto e stava accadendo nelle nazioni entrate nell'orbita sovietica. I numeri del 1946 avevano suggerito a Togliatti (Pci) e a Nenni (Psi) di unirsi nella convinzione di battere la Democrazia cristiana (responsabile, dopo un breve periodo di unità nazionale, dell'estromissione dei comunisti dal governo) e di conquistare il potere. La dottrina leninista, alla base dell'ideologia comunista, poneva il proprio accento sulla necessità di conquistare il potere, anche mediante alleanze con forze estranee al movimento proletario: un programma che, subito dopo la conquista, comportava da parte dei comunisti l'aggressione e la distruzione dei movimenti alleati. Così a Mosca, Lenin e Trotsky operarono la strage dei menscevichi (i socialisti, in maggioranza nella Duma) per rimanere gli incontrastati dominatori del governo centrale, poi diventato sovietico. La campagna elettorale fu dura e vide l'organizzazione comunista e quella socialista (affidata a Rodolfo Morandi, un personaggio mitico della storia politica nazionale), mentre la Democrazia cristiana, esplicitamente e efficacemente sostenuta dalla Chiesa (e dal suo braccio operativo: i Comitati civici, costituiti intorno all'Azione cattolica a cura di quel mostro organizzativo che fu Luigi Gedda) attaccò in campo aperto, forte degli effetti deleteri dei colpi di stato effettuati dai comunisti in Cecoslovacchia, in Ungheria, in Romania.Quando si aprirono le urne, la Democrazia cristiana ottenne il 48,51% dei voti espressi e la maggioranza dei seggi alla Camera dei deputati e al Senato. Il fronte democratico popolare (Psi-Pci) il 30,98. I socialdemocratici il 7,07. Altri a seguire. Il Movimento sociale italiano, il partito che si ispirava alla drammatica esperienza del fascismo, ospitando esponenti della Repubblica sociale, il 2,01 (con 6 deputati). Alcide De Gasperi, grande statista, capo del governo e della Dc, aveva ottenuto la sua definitiva consacrazione. Con lungimiranza politica non costituì, come avrebbe potuto, un governo monocolore, ma volle un governo di coalizione con i socialdemocratici, i repubblicani (2,48) e i liberali del Blocco nazionale (3.82). Nel gennaio del 1949, dopo adeguate negoziazioni, ebbe la luce l'Alleanza atlantica, di cui l'Italia fu uno dei fondatori. Con questo passo si completava l'adesione del nostro paese al mondo occidentale che si opponeva alla crescita del blocco di nazioni egemonizzato dal Partito comunista russo. Contro di essa, i comunisti istituirono in tutta l'Europa occidentale organizzazioni pacifiste che, in sostanza, non erano altro che movimenti formalmente pacifisti ma sostanzialmente volti a catturare le anime belle in una battaglia di evidente appoggio all'Unione sovietica. Cosa ci può dire, adesso, questo anniversario - a dire il vero ignorato dal mondo dell'informazione -? Ci può dire che la democrazia parlamentare, subito dopo la guerra, aveva corso il rischio di essere soppressa da una eventuale, possibile vittoria del Fronte democratico popolare (detto, semplicemente, Blocco del popolo). I socialisti, in effetti, avevano perduto ogni afflato autonomista e riformista, aderendo ai propositi sovietici. Tanto che Pietro Nenni venne insignito nel 1952 del Premio Stalin, come protagonista della lotta proletaria e antimperialista. E si può altresì affermare che il governo quadripartito diretto da De Gasperi avviò con efficacia la ricostruzione (che costituì un grande successo nazionale, riconosciuto a livello internazionale) e determinò, nel tempo, la ricostruzione morale del Paese. La prima conseguenza fu il consolidarsi e il diffondersi della democrazia. Nella seconda metà degli anni '50, la campana dell'autonomia iniziò a suonare in casa socialista, e ben preso si cominciò a parlare di «apertura a sinistra», cioè dell'inizio di una collaborazione diretta tra Democrazia cristiana e Partito socialista italiano, non più gravato dalla dipendenza dal Pci. Un processo, questo, voluto da Pio XII e seguito con attenzione dai prelati a lui più vicini. Va notato che nelle elezioni del 7-8 giugno del 1953, mentre la Dc confermava con il 40,10% la propria primazia, raggiungendo con gli alleati la maggioranza assoluta in Parlamento, il Psi pagava duramente l'unità d'azione con il Pci passando dal 20,68 del 1946 (nel 1948 s'erano presentati con il Pci) al 12,70. I comunisti, che nel 1946 avevano avuto il 18,93, avevano ottenuto il 22,60. C'è qualche altro insegnamento negli eventi politici dell'inizio del regime repubblicano e nel suo consolidarsi sulla via democratica? Certo e ce ne è più di uno. Il primo deriva dal successo della ricostruzione, avvenuta con modalità e gestioni ben lontane da quelle pasticciate inventate da Graziano Delrio con la collaborazione del magistrato Raffaele Cantone. Va sottolineato che il sistema regionale, con il suo ruolo di sostanziale interposizione di interessi locali contrapposti a quelli generali-statali, non era stato ancora costituito. Il secondo riguarda il ruolo che possono avere le coalizioni politiche soprattutto se riescono a non dividere in 2 la Nazione: mi riferisco al fatto che le formule della prima Repubblica coprivano il centro e parti minori della sinistra introiettata nella Dc e quella rappresentata dal Psi. Con De Gasperi si pervenne allo scontro frontale con la sinistra comunista. Ma in esso, il mondo democratico era con De Gasperi. Così si affermò il valore totale e totalizzante della democrazia parlamentare, così fortemente da costringere il Partito comunista medesimo ad abbracciarlo, almeno formalmente. L'ultimo insegnamento che voglio ricordare è quello della necessità che i responsabili politici del Paese individuino e indichino dove e quale sia l'interesse nazionale. E che lo perseguano con intelligenza e dedizione. E si deve essere consapevoli che non ci sono interessi diversi da tutelare e promuovere nell'andamento democratico della Nazione (di cui le regioni sono articolazione).

Domenico Cacopardo
Domenico Cacopardo

L'incipit del presente numero della rubrica, in cui abitualmente riprendiamo, diciamo, i passi scelti di una editoria dedicata all'approfondimento della storia della politica e della sua attualizzazione nelle riflessione nei contesti correnti, focalizza una pregevole rivisitazione-attualizzazione di quell'accadimento che, appunto il 18 aprile 1948 (destinato a diventare il famoso “18 aprile”, ineludibile  pietra miliare del confronto politico), sarebbe stata la scaturigine sia dell'asse degli equilibri politici durati per molti decenni sia, a ben vedere, della delineazione dell'asse del sistema politico-istituzionale.

Farà bene alla percezione dei mutamenti in corso non perdere di vista l'analisi e la riflessione di Domenico Cacopardo, che riprendiamo sia pure in sintesi.

A tutta prima, nella chiosa della rivisitazione di un fatto fondamentale, susseguente alla scaturigine di quanto avvenuto due anni prima (con il referendum istituzionale e la Costituente) verrebbe spontaneo sorprenderci attorno ad una costatazione quasi lapalissiana. Sono trascorsi tre quarti di secolo di collaudo per un'intelaiatura ordinamentale, incardinata nella presunzione di intangibilità nei suoi perni essenziali ispirati e determinati da quella sorta di linea del Piave, che fu (e che è) la difesa della regressione a qualsiasi ritorno a passati illiberali.

Non che le tentazioni non ci fossero (e, più o meno palesemente, non ci siano).

Magari nella forma melliflua dell'efficientamento, imposto dal mutamento dei contesti.

In realtà, i “ritocchi” più che da aggiornamenti tecnici apparvero e appaiono finalizzati, simulati nelle dinamiche dei poteri, ad incidere negli equilibri.

Si guarda fuori dai confini per trarre ispirazione ed emulazione da modelli, che hanno una loro giustificazione in contesti storici e in tagliandi concreti diversi dal nostro. Indubbiamente, non può in alcun modo valere il diktat del “tutto dov'è e com'è”.

Ma altrettanto chiaramente va detto che la Repubblica e la Costituzione sono intangibili dal punto di vista della linea guida impressa dagli eventi fondamentali costitutivi. L'unico correttivo può essere rappresentato dall'efficientamento del potere legislativo, con una significativa riforma in senso monocamerale. Senza alcun dubbio lavoro contro, rispetto a 75 anni fa, il fatto che i partiti classici non esistono più. Anche se all'orizzonte non appare nessuna offerta associativa in grado di fornire risposte strutturate.

Indubbiamente in campo si arrabattano due modelli contrapposti: l'indecisionismo compiacimento delle pulsioni populistiche (ultima generazione del massimalismo) e il decisionismo. Nonché una certa mancanza di responsabilità dei players del sistema politico

Barack Obama, negli ultimi giorni impegnato in un tour in Germania Federale (il cui modello istituzionale sarebbe quello più vicino come impianto garantistico al nostro), ha osservato: “la democrazia funziona se ti siedi attorno a un tavolo con persone che non la pensano come te e cerchi di convincerli. Se non ci riesci, accontentai di quello che ottieni. Perché in una nazione pluralista, nessuno mai ottiene tutto ciò che vuole. ”

L'esito dello strabordante successo del campo moderato-conservatore avrebbe anche potuto, secondo alcuni standards del presente, incardinare percorsi non totalmente congrui alla preesistenza costituente.

Il fatto che non sia avvenuto è ad un tempo una verifica della tenuta ed un monito a chi avesse strane idee.

Aldo Moro è morto invano?

Aldo Moro, una grande personalità della nostra storia politica e della Democrazia Cristiana, il 9 maggio di 45 anni fa veniva assassinato. Oggi, purtroppo per molti e soprattutto per i più giovani, quel drammatico giorno è solo una data storica da ricordare o è più opportuno cercare di recuperare i principi e i valori su cui Moro ha sviluppato la sua azione? Non dobbiamo dimenticare che Moro ha saputo coniugare pensiero e azione con un'opera tenace, attenta e prudente facendosi carico delle difficoltà di governare e guidare un paese reale, fatto di uomini e donne concreti, assumendosi di volta in volta le proprie responsabilità mentre altri, ieri come oggi, discettavano e discettano di politica in conventicole autoreferenziali all'insegna di irrealizzabili utopie.

Come in molti casi di criminalità politica, il ritrovamento del corpo di Moro in Via Caetani, confermò l'esistenza di una complessità di ragioni che spiegavano il motivo di un gesto tanto crudele ed insano che facevano da contorno al delirio omicida delle Brigate Rosse.

Moro doveva essere eliminato perché la sua filosofia sterilizzava il comunismo, allargava l'area della democrazia e distruggeva un velleitarismo rivoluzionario mai estinto. Il ricordo dell'eccidio del 16 marzo e del 9 maggio del 1978 perseguita ancora il Paese. Ha reso fragili le istituzioni democratiche, ha compresso l'area dei diritti, della democrazia e della libertà.

Negli anni, hanno preteso di ascrivere le radici e la responsabilità del terrorismo brigatista al movimento studentesco ed alle lotte sindacali del '68, espressioni di quella contestazione che Aldo Moro, a differenza della gran parte del mondo politico, seppe ascoltare con rispetto e con attenzione, fino ad intravedervi l'aspirazione e la prima fisionomia di quella “umanità nuova” che sentiva crescere e forzare l'involucro di un mondo che giungeva al suo epilogo.

"Farne memoria implica una presa di coscienza di una distanza e di una consapevolezza che non si può attualizzare e che non ha senso chiedersi cosa farebbe oggi Moro. Ha senso invece riscoprirne lo spirito, lo stile, il modo che aveva di affrontare il rischio dello sfascio del nostro Paese sulla coda lunga del '68 perciò propongo alcune sue riflessioni che ritengo siano utili per indagare la crisi della democrazia rappresentativa che, purtroppo, è tuttora attuale riconoscendo i profondi mutamenti della nostra società. – dichiara il Segretario provinciale dell'UDC Giuseppe Trespidi – Come, ad esempio, ”Vi sono sempre molti pronti a mescolare l'interesse personale con il bene comune. Non bisogna guardare in questa direzione ma alla propria coscienza, al proprio limpido impegno morale prima che politico. La nobile battaglia sociale e politica per una società giusta è lo sforzo di pochi, generosi e leali.”

Emerge in ciò la profonda passione di Moro di generare una pedagogia civile e di lasciare una traccia per i giovani. “Prima c'è l'uomo, la persona umana, poi la superiorità dell'etica sulla politica che diventa servizio disinteressato solo se costruito con il dialogo aperto a tutti e orientato alla costruzione del bene comune”. Sta in questo tutto il suo pensiero e la sua eredità spirituale prima che politica. Un altro esempio è il suo lascito spirituale: “Questo Paese non si salverà se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere e se la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera.

"La politica di Moro – continua Trespidi – si fondava su un assiduo e infaticabile lavoro di pazienza, di dialogo e di lungimiranza che, dopo la lezione degasperiana, guardava ancora allo spirito della Costituente nella stagione del centro-sinistra e poi in quello finale delle grandi intese.

Chi negli anni ‘70 non aveva saputo leggere i segni dei tempi avrà modo di non dimenticare che oggi, come allora, stiamo assistendo a cambiamenti e sfide epocali che richiedono un cambio di paradigma culturale e politico che Papa Francesco ha ben descritto nell'enciclica Fratelli Tutti, dedicata alla fratellanza umana e alla migliore politica, orientata al bene comune, ricordando che non ci si salva da soli ma soltanto insieme, non con il solo IO ma con il NOI.

Le formazioni dei sovranisti sono in testa in una lotta contro la scelta atlantica del Paese. Il terrorismo della prima fase è stato sconfitto. Oggi bisogna sconfiggere un terrorismo di ritorno incruento ma violento. Bisogna contrapporsi ai seminatori di odi, eversori per modestia di idee e di morale politica. Prendiamo coscienza che ci sono tante risorse non utilizzate. Onoriamo il sacrificio di Moro e di tanti servitori dello Stato trovando volontà e forza per rimettere il Paese lungo una traiettoria in cui non latitano compostezza, razionalità e amore per la libertà!

Allo stesso tempo noi dell'UDC pensiamo che la Politica debba continuare nella ricerca di risposte adeguate all'attuale permanere della “crisi del potere politico e della coscienza” e quindi alla necessità di una rifondazione morale e culturale dei costumi ricominciando a svolgere il suo ruolo ovvero: studiare, analizzare, pensare, proporre e fare azioni per migliorare la vita dei cittadini.

Un'Area Mediana deve ritrovare voce e rappresentanza. – conclude il Segretario UDC - Le ultime vicende smentiscono quanti dicono che il Centro ormai è improponibile. C'è bisogno di cultura di Mediana per governare con saggezza. Le esperienze democratico cristiane e laico riformiste devono essere un riferimento. Ognuno faccia la propria parte per ritrovare nella nostra storia migliore le ragioni per ricostruire una società più giusta ed equa.

Domenico Cacopardo
Giuseppe Trespidi Segretario Provinciale UDC, Cremona 5 maggio 2023

Analisi ampia e approfondita. Che riapre, o dovrebbe riaprire, riflessioni e. purtroppo...ferite. Anche se la partigianeria militante, sessant'anni fa, non lo faceva cogliere fino in fondo, la testimonianza ideale, sociale ed etica di Moro era poco dissimile dal riformismo socialista di Nenni. Infatti, l'unico ciclo di grandi riforme in Italia fu quello dei governi Moro Nenni. Osteggiate dalle invadenze atlantiche, dai circoli conservatori e reazionari nazionali, da un PCI che tradiva "la via nazionale" e la mission progressista, per curare l'articolo elettorale massimalista e demagogico. Controindicazioni queste esiziali per un riformismo che combatteva con le mani nude dell'idealismo e del gradualismo.  Contro il cinismo di quel PCI, sostanzialmente ancora fuori dell'Occidente e dall'Europa, c'era poca partita. Ci avrebbe provato Moro a sterilizzare, come dici Trespidi, l'anomalia italiana. Prima di lui nel 1976 ci aveva, con gli "equilibri più avanzati", De Martino. La chance d'appello avrebbe potuto essere la stagione riformista degli anni 80. Ma il delitto Moro fu proprio la zeppa esiziale. Dopo di questa l'inizio della II repubblica. Con cui i partners riformisti socialisti laici e cattolici furono asfaltati o marginalizzati nel bipolarismo. Ed il post PCI incanalato verso il niente...del pensiero liquido e della governance fine a se stessa. Due tratti che non possono interessare chi è restato riformista.

La rivisitazione dell'amico e concittadino Trespidi (pur sempre, stante la sua collocazione in un campo incongruo È tanto raro leggere nel confronto politico qualcosa per cui valga la pena leggere, riflettere e approfondire. Tra le cose da salvare nell'opera di Craxi c'è sicuramente il tentativo di trattativa con le BR. Non so quali sarebbero stati gli sviluppi se Moro fosse stato liberato. Ma indubbiamente la salvezza della vita di Moro non sarebbe stata solo un gesto umanitario. Ma avrebbe determinato nelle dinamiche interne ed internazionali effetti in netto contrasto con gli sviluppi effettivi.

Un eccezionale testimonianza di quei giorni  resa cinematograficamente è Esterno notte di Marco Bellocchio, basato sul rapimento di Aldo Moro.

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