2 giugno: Festeggiamo una nostra “coetanea”. Titolo-incipit di questa, delle precedenti e delle future edizioni della nostra testata dedicate alla celebrazione principe dell'agenda rievocativa dei perni fondamentali della storia, tutto sommato, recente della Patria. Termine questo che, da testimoni di una cultura comunitaria, che integra la lezione sia del Primo che del Secondo Risorgimento della Liberazione, non vogliamo lasciare in alcun modo nelle prerogative esclusive di un uso arbitrario. Di una parte politica che sta facendo sempre di più del senso di appartenenza il grimaldello per approdi. Più in linea con certi immarcescibili motti (“non restaurare non abiurare”) che non con sinceri afflati. Non ci resta che ribadire anche qui per la festa della Repubblica quanto abbiamo scandito alla vigilia della Liberazione.
Due celebrazioni che non possono prescindere dalla condizione di simul stabunt.
Non essendo consentito, né adesso né mai, coglier fior da fiore, opzionare su questo terreno la festa “preferita”. Liberazione e Repubblica, appunto, simul stabunt; con buona pace di coloro che pretendono di opzionare l'uso esclusivo di termini identificativi svianti. Per quanto in passato si sia inclinato ad un uso qualificativo, del termine Paese, succedaneo del concetto di Patria, orgogliosamente rivendichiamo la nostro piena prerogativa di definirci cittadini patrioti. Riteniamo con maggior diritto dei manovratori di un certo interessato scivolamento di termini, da Camerati a Patrioti. Certamente i Camerati di 80 anni fa si dimostrarono poco patrioti mettendosi a disposizione dell'occupante esercito nazista. Mentre il campo dei veri patrioti di fede liberaldemocratica operò per liberare l'Italia dall'invasore e da un regime che per 20 anni conculcò democrazia e libertà e promosse conflitti, immotivati e forieri di morte ed impoverimento.
Questa è l'Italia che abbiamo celebrato quaranta giorni fa, questa è, senza soluzione di continuità nelle motivazioni, l'Italia che abbiamo celebrato nella ricorrenza della proclamazione della Repubblica.
Indubbiamente ci farebbe piacere l'idea di superare queste contrapposizioni del passato, che allungarono la loro ombra in tutti i decenni che ci separano e che, al di là delle tattiche narrative, permangono nella sincerità dei propositi.
Saremmo reticenti se non facessimo menzione anche alla Patria Europea; con le stesse determinazione e chiarezza di vedute e di proposito con cui abbiamo appena scandito e qualificato la fede nella comunità nazionale.
Anche a questo proposito la comunità nazionale e quella europea simul stabunt. Scrive Sergio Romano: ci sono Stati per cui l'Unione deve continuamente rafforzare i propri poteri riducendo progressivamente la sovranità dei singoli Stati. Altri per cui la sovranità nazionale è intoccabile.
Riassumendo e volendo in certo qual modo essere generosi rispetto al senior partner dei nuovi equilibri, si potrebbe azzardare che ci troviamo di fronte ad un quadro di tiepidi europeisti e tenaci nazionalisti.
Ma anche su questo intendiamo essere perentori: rivendichiamo appieno l'equivalenza di cittadini della Patria e cittadini dell'Europa Unita.
Forse era questo il segmento da focalizzare nell'agenda celebrativa, un po' sfuggita al “tavolo” della politica intesa nel senso della partecipazione popolare, della testimonianza delle istituzioni e dei corpi intermedi del territorio.
Né si può assimilare a questa mission prioritaria della ricorrenza il profilo definito dal nuovo Prefetto (cui va comunque la nostra considerazione per l'alto e impegnativo carico incombente, in un momento tanto delicato per il coordinamento dell'ordine pubblico e dei corpi statali preposti): “Una grande festa popolare. La piazza gremita ci ha offerto un colpo d'occhio meraviglioso”
Indubbiamente in tale colpo d'occhio non sfuggiva la partecipazione dei rappresentanti del segmento fondamentale della presenza dello Stato nella rete istituzionale territoriale che sono i Comuni.
Un segmento che costituisce ad un tempo una garanzia di tenuta pubblica nel rapporto coi cittadini. Ma che, in tale ruolo fondamentale, non sempre e non adeguatamente è corrisposto da adeguato riconoscimento da parte dei livelli superiori dello Stato.
A cominciare dall'istituto regionale, rivelatosi nel tempo portatore della stessa o forse superiore postura centralistica, da sempre imputata allo Stato.
Da tale punto di vista, appare inappropriato il “contributo” del “governatore” lombardo, che non si sa se essere stato un gesto più di captatio benevolentiae o di excusatio non petita.
Insomma, pur nell'apprezzamento di un modulo celebrativo della festa fondante dell'Italia, scaturita dalla Liberazione e dal referendum costituente, fortunatamente risparmiato da scontri divisivi, non possiamo glissare su un'occasione mancata di rivisitazione dei significati profondi, passati e presenti. Essendosi preferita l'opzione di una celebrazione, monopolizzata da promoter e influencers di sé, del proprio ruolo, delle proprie aspettative.
Scrivevamo un anno fa:
A quasi ottant'anni dal quel cambio di fase, che rivoltò come un guanto una nazione, giunta stremata al secondo dopoguerra, sarebbe legittimo attendersi la piena identificazione dei cittadini in quel progetto di modernizzazione e democratizzazione. Suscettibile di ispirare l'approdo generalizzato a convincimenti non partisan sulle linee guida di ispirazione e di identificazione
Forse (o quasi certamente) ha corrisposto a tale spirito l'iniziativa assunta della Presidenza del Consiglio Comunale che, nel pomeriggio della stessa giornata, ha calato sul tavolo celebrativo la, se non appare irriguardoso il termine, briscola della conferenza di Valdo Spini autore del saggio intitolato “Sul Colle più alto”. Che, diciamolo con franchezza, ha raddrizzato la linea guida celebrativa, attraverso la rivisitazione e l'approfondimento dei perni della Repubblica, partendo dal ruolo centrale di garanzia del Capo dello Stato.
Spini aveva sapientemente completato il suo lavoro di testimonianza (maturato in un'invidiabile posizione di visto da vicino, nel suo mezzo secolo di servizio alla politica ed alle istituzioni) nel momento cruciale del cambio di “settennato”.
Ma, a dimostrazione della profondità della rivisitazione delle figure, dell'alta magistratura, dei correlati cicli politici (accompagnata da una non banale apprezzata piega aneddotica), la fatica di Valdo Spini si è confermata, anche in questa occasione conviviale molto apprezzata dai partecipanti, di spessore e di stimolo permanente alle percezioni indotte dal contesto attuale e alle consapevolezze indispensabili per non smarrire la retta via rappresentata dell'aderenza permanente ai perni della Repubblica.
È con questo spirito che Valdo Spini rievoca nelle pagine del suo libro e nell'esposizione che si è avvalsa dell'apprezzato coordinamento del direttore de La Provincia Paolo Gualandris le figure che si sono succedute come capi dello Stato da De Gasperi a Mattarella ricostruendo il modo in cui sono stati eletti e come sono arrivati alla carica rappresentativa più alta della Repubblica. Sono quattordici vicende che fanno quasi tutte storia a sé perché presentano svolgimenti molto diversi tra loro, a seconda degli anni, dei protagonisti e del contesto politico.
Farebbe bene il combinato di opinione pubblica e di corpo elettorale a tenere nel debito conto, proprio nel momento in cui, oggi più che nel passato, riemerge la tentazione di manomettere (con intenzionalità non esattamente “neutre” di efficientamento da tagliando della macchina dopo 70 anni di funzionamento) l'equilibrio si cui venne basato e si basa la ripartizione dell'attribuzione dei poteri costituzionali.
L'esperienza, non solo di questi ultimi anni ma dell'intero spazio-temporale della Repubblica, insegna (o dovrebbe!) quanto sia essenziale il ruolo dell'inquilino del palazzo del Colle più alto in un sistema parlamentare, come il nostro, caratterizzato per decenni da un'apparente staticità, ma in realtà in transizione politica alla ricerca di nuovi equilibri politici.
Impulso questo, apprezzabile e rivelatore di una certa propensione alle dinamiche del pensiero politico e di nuovi orizzonti. A patto che il loro perseguimento non postuli se non proprio lo scardinamento, la manomissione dell'intelaiatura della Costituzione Repubblicana.
Non tutti i 14 “Inquilini” sono stati omologati da un target prestazionale di stretta aderenza a quello spirito; così ben enucleato dal lavoro editoriale e dall'esposizione del relatore. Alcuni di loro, a prescindere dalla loro collocazione (saremmo, però, insinceri e reticenti se non sottolineassimo la distinzione dei due di scuola socialista), hanno assolto con grande spirito di servizio la loro “consegna”. Altri, non sempre e non nello spirito strettamente discendente dal ruolo di garanzia nell'interesse supremo del mantenimento permanente dei delicati equilibri.
Ma, diciamolo francamente, l'ordinamento costituzionale, figlio della transizione alla nuova Italia, si è rivelato, al netto di mende, alcune rilevanti, dotato di innegabile capacità di anticipazione.
Sicuramente occorrerebbero un “tagliando” e una conseguente “revisione”. Che abbia come precordi un sincero afflato di efficientamento della macchina. Certamente non lo sono il retroterra delle riflessioni (non sempre congrue e sincere) e, soprattutto, il core business delle operazioni in corso.
Valdo Spini, restando nella sua esposizione sempre super partes rispetto alle asprezze ideologiche, qualcosa ha concesso in termini di divagazione dal percorso storico. Parlando, appunto, delle prerogative cruciali del ruolo, ha affrontato il ventaglio delle ipotesi di “riforma” dell'impianto costituzionale. Che, come noto, ricomprende correzioni non tanto nell'impianto e nelle prerogative quanto in modalità di ascesa ai ruoli. Che disosserebbero gli originari equilibri. Non casualmente il Costituente fissò, prudenzialmente, percorsi di riforma istituzionale, se non proprio blindati, certamente tutelati.
Per quanto può valere (e proprio perché siamo sul pezzo) facciamo un outing che impegna solo chi lo scrive. A noi il modello costituzionale va bene così com'é. A prevalente base parlamentare. La lunga scansione temporale dei 75 anni di collaudo impone una valutazione da profondità storica, prevalente su rilievi magari fondati, ma non al punto da indurre a buttare l'acqua e il bambino lavato.
Insomma, si vorrebbero polarizzare gli organi. Il capo dello Stato e il Capo del Governo (che sarebbe più appropriato definire Presidente del CdM). Non è difficile comprendere dove si voglia parare. Essendo evidente che il sentiment sottostante non è prevalentemente vocato al tecnicismo delle conseguenze della riforma.
Il relatore ha fatto menzione dell'innamoramento del “nuovo corso riformista” del socialismo italiano nei confronti del modello francese del “semipresidenzialismo”. Che, va obiettivamente detto, aveva rilanciato il modello francese dall'impasse della Quarta Repubblica e, quel che più contava per le aspettative dei socialisti italiani di quella temperie, aveva incardinato per una lunga stagione di preminenza di un PSF reso cachettico da una troppo lunga consuetudine di governo.
Ora non ci pare necessario impiccare le sorti dello slanci riformista del nostro modello istituzionale a quello, diciamolo con franchezza, un po' acciaccato dei cugini. Il ragionamento varrebbe anche per il premierato o cancellierato che dir si voglia.
Tornando a bomba sull'argomento (più che sfiorato, significativamente centralizzato dalla relazione e dagli interventi) e con il solo intento di un virtuale contributo, diciamo che l'unica “revisione”, per noi coerente, congrua, compatibile con lo spirito e la lettera, resta racchiusa nella riforma del 2016: bicameralismo differenziato. Soprattutto, come ha rivendicato Spini, riforma elettorale, che archivi “porcelli” e trucchi, suscettibili solo di sprofondare definitivamente la già precaria tenuta del sistema in generale e del rapporto tra mandato di rappresentanza ed elettori.