Mario Muner su Cento e un anno di poesia Cremonese ha scritto note di estremo interesse sul dialetto della città del Torrazzo, che non si limitano però alla parlata locale, perché esse vanno al cuore di tutti i problemi. Sono note che riguardano le matrici di un particolare modo di vivere e di pensare, condizionanti non solo l'espressione artistica ma anche la lettura della storia e dell'agire civile.
Muner dice in sostanza che la città di Cremona, pur essendo situata in una delle aree più attive ed animate del mondo, “non ha mai rinunciato, nel profondo della sua caratterizzazione, alla sua elementarità e alla sua immobilità: pari in tutto a un centro di gravità che, pur nel volgersi attorno ad esso delle orbite più varie, non rinuncia al permanere dei suoi valori d'origine e non tollera determinate alterazioni”.
Cremona muta la pelle, la superficie, ma non la sostanza, il corpo. Attorno a questo corpo stanno avvolte, infatti, culture camaleontiche che si adattano alle varie circostanze, con lungimirante e cinica maestria. Le apparenti e superficiali modificazioni politiche sono concepite come irritazioni della pelle, che vengono anestetizzate con cura. Quieta non movere, consiglia il motto latino, che è come dire “non agitare ciò che è tranquillo”. E qui il concetto è applicato con grande determinazione, coprendo con l'aggettivo ‘tranquillò le indolenze, le inadempienze e le occasioni mancate, col risultato di vedere migliaia di Cremonesi costretti, tuttora, a fare i pendolari e a rivolgersi altrove per lavorare e guadagnarsi da vivere.
La ' tranquillità ', la ' marginalità della quiete ', ' l'eccentricità '
Questa situazione di ‘tranquillità' è pregna dello straniamento, del distacco dal divenire del tempo, e dell'impulso della marginalità, così come della ripulsa, del rigetto di ogni progetto e processo dinamico, imbalsamata da un bozzolo filato da pochi, che pongono, imperturbabili, il resto della città ai margini della storia. Tutto ciò spiega – dice ancora Muner - il perché di “certe singolari e, vorremmo aggiungere, sorgive vocazioni musicali e poetiche (ma anche in altri campi) della città e, nello stesso tempo, la sua riluttanza ad occuparsi troppo di chi incarna tali vocazioni”.
Infatti i coraggiosi che intendono incarnare tali vocazioni sono visti come ‘originalì, come eccentrici, come devianti dal centro di gravità, come óof fóora dèl cavàgn (come uova fuori dal cesto). Questi non allineati sono guardati con sospetto perché osano traguardare i confini esistenziali al di là del cortile di casa, in de l'èera, nell'aia. Essi sono consapevoli che esista un più ampio spazio che comprende il mondo conosciuto, a partire non da Urano e Plutone, ma da Crema, Mantova, Piacenza, per non parlare di Brescia, Bergamo e Milano. Sanno pure, questi ‘fastidiosì, che per operare servono tempi ‘tranquillì, ma non doppi o tripli rispetto al necessario.
Muner spiega che pure la parlata locale ha dovuto pagare lo scotto di questo magma cristallizzato, arrivando all'accantonamento, alla separatezza avvenuta per secoli, fra gli abitanti di Cremona e la loro stessa lingua, ritenuta, da chi si è sempre considerato appartenente ad una casta di eletti, rozza e non degna di essere elevata a strumento artistico. L'aver sminuito il valore del vernacolo cremonese è il marchio d'origine di un blocco politico e sociale predominante per secoli, i cui riflessi sono ancora visibili oggi; regno di quella insofferenza indicata da Muner, la quale ha figliato, a propria volta, la diffidenza verso la propria lingua materna, tanto da non ritenerla mai pronta a liberarsi dai gretti particolarismi ed ad aprirsi agli orizzonti elevati dell'arte letteraria e della poesia. Non per niente nelle case del patriziato locale, fino a tutto l'Ottocento, si è privilegiato il meneghino rispetto al cremonese, ritenuto la lingua dei servi, anche se usata da mercanti, artigiani, artisti, barcaioli e pescatori, operarii in pietra, carovanieri di muli, maniscalchi, lanaioli e così via.
È veramente stucchevole quanto accaduto alla parlata del Torrazzo, definita ' illustre ' da Dante Alighieri alla fine del 1° libro del De Vulgari Eloquentia, su questo trattato in lingua latina scritto tra il 1303 ed il 1305, e quindi nella fase crepuscolare del libero Comune di Cremona, che cessò d'esistere nel 1334.
L'attestazione del grande Vate d'Italia non fu sufficiente a far riconoscere, dai maggiorenti cremonesi, dignità al dialetto locale; dialetto che, con tutta probabilità, era ben vivo e colorito pure allora, zampillante di metafore, modi di dire e proverbi sulla bocca della gente comune.
Probabilmente, il potere delle caste locali, e dei loro privilegi, si accordò col nuovo signore della città, Azzone Visconti, el Kàn de la Bìsa (il Capo del biscione milanese), e da questa alleanza d'interessi non uscì di certo il desiderio di mettersi in sintonia con la lingua della gente minuta, e di concedere a questo lessico plebeo l'elevatezza di ruolo e di rango. Altrimenti come si spiega l'universale silenzio, la studiata disattenzione, lo strabismo culturale e linguistico dei cinquecento - sessant'anni che seguirono?
Si dovette infatti attendere sino al 1865 per scorgere in Melchiorre Bellini un poeta, con la lirica L'origine del Giubileo. A questa composizione, infatti, si deve la rinascita della poesia in dialetto cremonese, la cui vena era stata sotterrata per cinque secoli e mezzo nel buio tunnel della dimenticanza. Avvenne un miracolo, pur non essendo Bellini un santo ma un anticlericale, figlio di una tribolata stagione fagocitata da contrapposti fondamentalismi.
È opportuno, a questo punto, leggere cosa scrisse a suo tempo Dante, il sommo poeta, nel tracciare una specie di canone ascendente della realtà linguistica italiana, alla cui base andò a collocare proprio il dialetto cremonese: “Affermiamo dunque che questo volgare, che abbiamo dimostrato essere illustre cardinale, aulico e curiale, è quello stesso che si chiama volgare italiano. Infatti, come è possibile trovare un determinato volgare che è proprio di Cremona, così è possibile trovarne uno che è proprio della Lombardia; e come è possibile trovarne uno che sia proprio della Lombardia, così è possibile trovarne uno che sia proprio di tutta la sinistra d'Italia. E come il primo si disse cremonese, il secondo lombardo ed il terzo di mezza Italia, così cotesto che appartiene a tutta l'Italia si chiama volgare italiano”.
La scelta del dialetto cremonese, posto alla base di una scala ascendente di valori, ha certamente la sua spiegazione nel ruolo della città del tempo, del libero Comune sorto nel 1098, e del primato mantenuto da Cremona per alcuni secoli in Lombardia, e quindi l'essere stata ritenuta degna, la città, di rappresentare tutta la koiné linguistica di una vasta area padana.
L'attestazione del poeta fiorentino andò a riconoscere l'esistenza a Cremona di una lingua di pregio, d'eccellenza. Con la libertà comunale soppressa dai Visconti venne pure schiacciato il dialetto locale, facendo irrompere sulla scena il silenzio, la disattenzione, la quiete intellettuale, la ‘tranquillità'.
Gli intellettuali dugenteschi di Cremona
Gherardo Patecchio, Ugo Da Persico, Uguccione Da Lodi
Certo sarebbe interessante conoscere a quale dialetto si riferisse Dante parlando della città del Torrazzo. Ascoltò questa parlata direttamente a Cremona? O la studiò sulle pagine scritte dagli intellettuali cremonesi, quali Gherardo Patecchio, Ugo da Persico ed Uguccione da Lodi? I tre autori cremonesi erano infatti molto conosciuti all'epoca dell'Alighieri, perché insieme a Bonvesin da la Riva, Pietro da Bersegapè, Giacomino da Verona, essi erano stati gli artefici del “lombardo illustre”, quella lingua romanza che successivamente si sarebbe spenta di fronte alla concorrenza della lirica toscana e del successivo e prorompente Dolce Stilnovo. È probabile, comunque, che Dante sia passato dalle parti del Po. Così come è certo che gli Autori del Duecento cremonese fossero precursori, più o meno illustri, del grande poeta fiorentino. Essi crearono, insieme agli altri autori padani, i presupposti per la creazione della lingua nazionale, svolgendo nel contempo la funzione di progenitori del cremonese letterario. O meglio ancora: essi furono quegli artefici, che partendo dal volgare cittadino, crearono le condizioni di una nuova lingua, molto affine all'italiano, ma pure distinta da esso. Quest'ombra di lingua letteraria, specialmente al settentrione, si spense ed i vari dialetti tornarono a restringersi nei loro limiti territoriali. Così avvenne pure per la parlata cremonese abbandonata ed accantonata al proprio destino d'orfanella.
Lo ' Splanamento ' e le ' Noie ' di Girard Pateg
Ma vediamoli, ora, ad uno ad uno, questi Cremonesi del “volgare illustre”.
Il primo di essi è un poeta che viene ricordato con un nome che si rifrange in varie modalità: Gerardo, Girardo, Girard Pateg, o Gherardo Patecchio, battistrada fra i rimatori della nostra letteratura nazionale. Questi fu notaro a Cremona, dove visse dal 1197 al 1238, e uomo di fiducia di Uberto Pallavicino, podestà e signore della città. Le sue due maggiori opere sono lo Splanamento (=spiegazione) de li Proverbi de Salomone e le Noie. Al catalogo degli ammaestramenti morali sul modello dei proverbi attribuiti a Salomone, il notaio cremonese inserì elementi diversi, quali l'Ecclesiastico o i Dicta Catonis, testi fondamentali della cultura medioevale, senza rinunciare d'aggiungere elementi desunti dalla cultura popolare.
Lo Splanamento, scoperto nel 1886 da Adolfo Tobler in un codice della biblioteca di Berlino, è un poemetto costituito da 606 versi rimati a coppie, fra i quali sono di notevole interesse i versi della parte dedicata interamente alle donne. Le Noie, invece, sulla falsariga dell'enueg provenzale, raccolgono e presentano alcuni aspetti della vita che danno noia e fastidio, contrapposti a fatti e persone che ispirano gioia.
Una terza opera, il De Tedìis, citata cinque volte da Salimbene da Parma sulla sua Cronica, fu scoperta dal cremonese Francesco Novati, nel 1896, in un codice della biblioteca di Brera. Una quarta operetta, riguardante il contegno del Marchese di Monferrato verso gli scudieri, citata ancora da Salimbene, è invece andata perduta.
Nella suddivisione delle parti dello Splanamento sono presenti alcuni termini che richiamano il dialetto cremonese dell'epoca, un dialetto probabilmente contagiato dal veneto: 1° Prologo; 2° De la lèngua; 3° De soperbia e d'ira e d'umilitate; 4° De matèza e de màti; 5° De le fèmene; 6° D'amigo e d'amistate; 7° De riqeça e de povertate; 8° D'ogni cosa comunalmentre; 9° Epilogo.
La produzione artistica di Patecchio viene a riflettere il desiderio diffuso nel suo tempo di una immediata partecipazione dei laici alle cose e alle parole della fede.
Gioacchino Volpe ci indica una ragione che può portarci a meglio comprendere tutta questa viva stagione culturale: “La sostituzione delle lingue volgari al latino non deriva dalla loro minore e maggiore maturità, né da alcuna virtù intrinseca della parola, ma è la manifestazione naturale di quel profondo rinnovamento delle coscienze e di quel mutamento dello spirito e della aspirazioni religiose, che ha i suoi segni nella storia e nelle vicende delle sette ereticali del secolo XII”. Come dire: è il volgare artistico il segno del cambiamento, del rinnovamento, della vita che si rigenera; il dialetto, il volgare fu contrapposto allo sbadiglio e alla ‘tranquillità' dei poteri feudali dell'epoca.
Anche Piero Cudini scrive che la cultura settentrionale, che si svolge e si diffonde tra la metà e la fine del Duecento, è influenzata in buona parte dai movimenti ereticali. Quegli scrittori si orientarono a diventare divulgatori di esigenze morali e spirituali, e vennero ad assumere caratteri sostanzialmente laici “nella tendenza stessa all'affermazione del mito, della favola, della tematica fortemente didascalica”. Essi usarono “impronte linguistiche fortemente personali, caratterizzate dalle più specifiche forme dialettali locali”. E parallelo all'uso delle parlate popolari vi è pure l' interesse sull'indirizzo specifico che li muove ad operare.
Ed è quello di essere interpreti di ‘moralità' proprie del contesto urbano in cui vivono. Vi è quindi nella loro scrittura un'associazione binaria fra lingua e costume, di lingua figlia di quell'etica, e di un'etica e di comportamenti che si esprimono in quella lingua. Una lingua usata come una spugna, aperta ad assorbire vari contagi; una lingua che si trovò a rapportarsi col provenzale trobadorico, col siciliano illustre della corte imperiale itinerante di Federico II (1194-1250), il grande personaggio medioevale che scelse proprio Cremona quale sede centrale del suo permanere in Val Padana, presidiando da qui tutta l'Italia Settentrionale.
E venne ad essere coinvolto in tale crogiuolo linguistico il primo poeta volgare fiorito in Lombardia, Gherardo Patecchio, appunto. La sua produzione poetica, insieme a quella di altri prosatori e poeti municipali lombardi, portò un contributo alla gemmazione di quella prospettiva estetica che avrebbe raggiunto con gli autori toscani una valenza straordinaria, tale da imporsi con Dante Alighieri a modello della lingua nazionale italiana. Alla corte cremonese di Federico II, il volgare che fino ad allora era stato usato al mercato, o solo nelle cucine del palazzo imperiale, trovò la strada per essere accolto nell'aula maggiore della corte stessa, ed essere ascoltato ed apprezzato.
Vediamo ora i versi alessandrini in distici dell'inizio dello Splanamento.
È nome del Pare altissimo e del Fig beneeto
e del Spirito Santo, en cui forsa me meto,
comenz e voig fenir e retrar per rason
un dret insegnamento ch'afermà Salomon.
Nel nome del Padre altissimo e del Figlio benedetto
e dello Spirito Santo, alla cui forza mi affido,
inizio e desidero concludere ed ottenere per mia ragione
un retto insegnamento come affermò Salomone
Ed ora invece leggiamo altri versi sulle donne, scritti sempre da Gherardo Patecchio, su un filone d'indirizzo non scevro da quella misoginia estetica che si sviluppò parallela al raffinato ‘amor cortesè.
Qi nudriga puitana…
Qi nudriga puitana fai mal, q'elò è autrui,
e sì ie perde ‘l so, e no retorna en lui.
Com femena d'autr'omo non se vol trop sedhere,
qé l'omo sèn dà guarda, èn blasmo ‘n po' caçere.
Chi nutre una puttana fa male, diventa altro da sé,
così egli perde il senno, e non ritorna più in lui.
Con femmina d'un altro uomo non ci si può troppo intrattenere,
perché l'uomo deve stare attento, e nel biasimo può cadere.
...continua...