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Giornata della memoria

Lettere ed Eventi

  27/01/2022

Di Redazione

Giornata+della+memoria

A giornata pienamente in corso e promettente, considerato il volume complessivo della testimonianza, sia livello nazionale che locale, introitiamo in questo format sia alcuni messaggi pervenuti sia la cronaca di iniziative degne di menzione. 

Pubblichiamo due lettere ricevute (a dimostrazione che i fondamentali acquisiti nel percorso scolastico non ingannano neanche alla distanza) da “compagni” appunto di classe:

1) Buongiorno Caro Enrico. Il tuo articolo mi è piaciuto molto, come ho detto ieri non solo ricordare ma educare perché atrocità simili non succedano più. 

C.L. - Vicenza 27 gennaio 2022 

2) Bravo..direttore!  Di questi tempi, forse di giornate della memoria ce ne vorrebbero più d'una! La libertà, non certo quella concepita dai no vax, non è un bene acquisito in perpetuo. Quindi, è compito di tutti vigilare ed operare affinché questo bene assoluto non venga trascurato. Ieri sera, su rai 1, è andato in onda un film storico/ drammatico:" Lezioni di persiano " Tratto da un fatto realmente accaduto in un lager nazista. Ora li si può visionare su Rai Play.   

T.A. - Cremona, 27 gennaio 2022 

L'ecoEventi 

La memoria di chi non può più raccontarsi 

Le ACLI di Cremona, in collaborazione con l'Istituto Romani di Casalmaggiore, commemorano la Giornata della Memoria con una raccolta di poesie, scritte dagli alunni delle classi 2 A LSSA,  

2 B LSSA, 3 A LSSA, 3 B LSSA, 5 B LSSA, 5 CAT.  

Pensieri profondi, toccanti, commoventi.  

Ragazzi così giovani che hanno colto con sincero trasporto il dolore delle atrocità dell'olocausto.  

Nel giorno della Shoah, intendiamo dunque, per mezzo di una delle forme più belle dell'arte, parlare “di chi non può più raccontarsi”, onorarne la memoria attraverso la poesia, che diviene così strumento di educazione. 

La poesia per restituire la vita nel ricordo, a coloro a cui è stata strappata. 

Un grandissimo grazie a questi meravigliosi alunni. 

RICORDARE PER NON RIPETERE. 

Tutti uguali, tutti diversi: il video degli studenti di Cr.Forma per la Giornata della Memoria 

Ragazzi in maglietta bianca, come gli studenti del film L'Onda di Dennis Gansel, che piano piano indossano felpe e giubbotti diversi, che si vestono ognuno nel proprio stile. Quest'anno, in occasione della Giornata della Memoria, ricorrenza internazionale in ricordo delle vittime dell'Olocausto, ottanta studenti di Cr.Forma hanno ideato e realizzato un video sulla bellezza dell'essere contemporaneamente ‘tutti uguali e tutti diversì. Un progetto svolto nelle seconde di ristorazione, meccanica e termoidraulica della sede di Cremona e coordinato dalle professoresse di storia Laura Sguazzabia e Silvia Pollastri, con la collaborazione degli altri professori, nell'ambito dell'approfondimento sui totalitarismi. “È stato un video nato dai ragazzi che sono rimasti particolarmente colpiti dal film L'Onda e che hanno voluto in qualche modo reinterpretarlo - spiega la professoressa Sguazzabia - È vero che siamo tutti uguali, ma la differenza può essere bella, può essere positiva” Questo è il messaggio del video.  

Gli studenti, per il 27 gennaio, hanno anche allestito una mostra nel cortile interno della scuola su tre temi: pregiudizio, discriminazione e persecuzione. Un percorso fatto di immagini, simboli e scritte per testimoniare l'approfondimento fatto in classe e per sensibilizzare i compagni sui temi della memoria.  

“Questi sono temi delicati - continua la professoressa - che rischiamo di essere trattati con superficialità dai ragazzi. Non è stato cosi. Sono loro che hanno trovato la chiave di volta, che hanno trovato una lettura per attualizzare alcuni meccanismi. Molti, grazie al percorso fatto, si sono resi conto di aver vissuto loro stessi delle discriminazioni. Anche questa è istruzione. Affrontare questi temi con i ragazzi è importante perché definiscono le persone che saranno domani, danno loro gli strumenti critici per inserirsi nella società ‘dei grandì, per riflettere e farli parlare di se stessi. I ragazzi sono stati stratosferici”.  

Iniziative anche alla sede di Crema. Partendo da uno scritto di un'allieva dal titolo "L'Olocausto", i ragazzi hanno dato vita ad una riflessione sul tema e le classi seconde hanno iniziato un lavoro di approfondimento che proseguirà nei prossimi giorni. 

Il video "Tutti uguali, tutti diversi" è visibile sul canale You Tube di Cr.Forma a questo link: 

https://www.youtube.com/watch?v=AXKhRc2k7Fw 

GIORNATA DELLA MEMORIA A SONCINO, BORGO PER ECCELLENZA DELLA CULTURA EBRAICA 

Il 27 Gennaio si aprirono i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz all'entrata delle truppe russe e, si scoprì l'orrore che il campo conteneva. In precedenza, con la Soluzione Finale, Endiosung der Judenfrange, in lingua tedesca, temine usato dai nazionalsocialisti a partire dalla fine del 1940, per definire gli spostamenti forzati e le deportazioni di migliaia di Ebrei, Hitler aveva azionato quel motore di morte che aveva ucciso 6 milioni di Ebrei. Come si possono dimenticare o cancellare dalla storia questi eventi che, anche solo la parola tragici, rappresenta una minima parte del paino criminale del capo del Terzo Reich.  

Il Comune di Soncino per celebrare la Giornata della Memoria 2022, vista l'impossibilità per ragioni di Covid di allestire una mostra, ha chiesto all'artista newyorkese, Frank Denota, la possibilità, come lo scorso anno, di pubblicare sul sito del municipio alcune opere che l'artista aveva messo in mostra presso il complesso di San Giovanni a Catanzaro. 

La mostra titolava Solo per Colpa di essere Nati e aveva come guida dei testi introduttivi della senatrice Liliana Segre. 

Ogni opera, del maestro americano di street art coglie nel segno quegli aspetti principali che hanno caratterizzato il periodo storico, sostenendo il valore della Memoria e della Resistenza. 

 Alcuni dei trenta dipinti sono stati mandati e, verranno pubblicati, visto il successo dello scorso anno ancora sul sito del Comune di Soncino. 

Un modo per sottolineare, accanto alle manifestazioni in cantiere del Museo degli Studi Ebraici del Borgo, che non si può assolutamente dimenticare un eccidio che ha distrutto un'intera comunità, le sue usanze, i suoi network e tutto ciò che l'aveva caratterizzata. 

Quindi con un semplice click sulla pagina del Comune, sezione Cultura, si potrà immediatamente essere vicino alla tragedia che ha colpito e radiato gli Ebrei. Un grazie all'artista Denota, al suo press agent Enrico.  

Solo per colpa di essere nati quindi per alcuni giorni potrà essere visitata virtualmente anche a Soncino.

Frank Denota nasce a New York nel 1967. Frequenta fin da giovane ambienti artistici entrando in contatto con Andy Warhol e Keith Haring e con galleristi come Leo Castelli. Autodidatta, si dedica alla pittura dal 1993 studiando, tra gli altri, Mark Rothko e Jakson Pollok. Nel 2010 fonda il movimento G.A.N.T. insieme a LAII e Paul Kostabi e approda definitivamente alla Street Art e alla Pop Art creando un crossover tra i due movimenti. Vive e lavora a New York. 

Da ultimo, in questa edizione del focus della Giornata della Memoria 2022, pubblichiamo la nota di inquadramento del nostro personale memoir dedotto dalla visita al mausoleo di Auschwitz in occasione dell'inaugurazione del Padiglione Italia. Con il che intendiamo ricordare il senso del nostro vissuto, ma soprattutto onorare il combinato risultante dalla dedizione educante di molti insegnanti e dalla corresponsione dei lori discenti. Che, in tempi in cui si continua a ballare sul ponte del Titanic, non è poca cosa. 

IL (nostro lontano) VIAGGIO DELLA MEMORIA 

reportage da Auschwitz – aprile 1980 

Ci apprestiamo a questa riflessione con un animo, che, senza voler affievolire il trasporto delle precedenti testimonianze, è reso particolare da un accumulo di inputs, sollecitati tanto dal ricordo e dal portato di partecipazione civile ed emotiva ad eventi recenti, quanto da quella sorta di working progress che sono diventate le iniziative educative avviate nell'ambito scolastico. 

A dispetto del plumbeo e scoraggiante contesto generale, che scoraggerebbe anche i più entusiastici auspici, siamo veramente confortati da evidenze, come per il viaggio della memoria diretto a Dachau di oltre 800 giovani cremonesi, che collocano percezioni ed aspettative per il futuro in una simmetria opposta.  

Uscendo dalla perifrasi, ci riferiamo espressamente a quel complesso di iniziative, in cui ha avuto un ruolo determinante la rete scolastica della memoria; distintasi per la capacità di enucleare inedite modalità educative in sinergia con le istituzioni, l'ancora significativo patrimonio associativo, alcuni presìdi filantropici (che, come nel caso della Fondazione Buschini-Arvedi, la bontà dei progetti, in aggiunta agli slanci di lungimirante generosità, non ha faticato molto a coinvolgere). 

Come si sarà sicuramente notato, alla nostra testata è parso doveroso riservare una particolare attenzione a tutto quanto negli anni recenti si è mosso in tale direzione. 

Se ci fosse chiesto di esprimere una predilezione per ognuna di queste virtuose attività, saremmo, tanto le consideriamo tutte feconde, in deciso imbarazzo.  

Indubbiamente, ci sollecita molto la potenziale centralità di queste testimonianze nel campo scolastico-educativo che concorrono a fornire risposta sia all'esigenza di ancorare la futura crescita civile alle consapevolezze indotte dalla memoria sia all'ineludibile sollecitudine nei confronti dell'acutizzarsi quotidiano di una fenomenologia regressiva suscettibile di condurre a fallimento l'aspettativa di formare nuove generazioni migliori delle precedenti. 

Ne è preoccupante segnalatore la diffusa tendenza con cui una ragguardevole aliquota delle nuove generazioni (in formazione nel circuito scolastico o nel più ampio contesto comunitario) denota una alterazione della percezione della realtà; che, soprattutto con l'indotto sinergico di una dipendenza compulsiva dei social e di devastanti impulsi emulativi, conduce ad una virtualità non esattamente edificante.  

Premessa questa che porta alla constatazione del cedimento strutturale dei perni della formazione e della crescita dei nuovi cittadini (e, quindi, della progressione comunitaria); foriero della inconsapevole o forse solo rassegnata tendenza, se non proprio a disinvestire, ad impiegare in termini inversamente proporzionali in una priorità che dovrebbe restare nelle sollecitudini tanto della classe dirigente quanto del popolo. 

Non vogliamo qui avventurarci in un'analisi, che non rientra (pur lambendolo) nel focus del presente approfondimento e che, oltretutto, non sarebbe alla portata di chi scrive. 

Ma, indubbiamente, da anni (da troppi!) langue la solerzia nei confronti di una centralità priva di adeguate consapevolezze. Che dovrebbe postulare una mobilitazione comunitaria e, con essa assunta a premessa, un corrispondente sforzo di innovazione e la conseguente messa in campo di adeguati investimenti strategici e correnti. Mentre, al contrario, dimostrando la propensione a segare il proverbiale ramo su cui si è seduti, il comparto scolastico/educativo/formativo è stato (e continua ad essere) sottoposto ad un indiscriminato taglio lineare della spesa scandito da quell'inconsapevole ed irresponsabile carmina non dant panem. Oltretutto inaccettabile per quella conclamata refrattarietà all'evidenza ed alle sollecitazioni delle criticità del contesto (per di più aggravato dal fenomeno pandemico). 

Ma tale biasimevole sfondo integra la condizione di un'ancor più severa reprimenda nei confronti dell'ormai consolidata sottovalutazione operata dagli indirizzi generali e specifici in materia di sinergie tra la trasmissione del sapere e, come si diceva un tempo, l'educazione civica 

Intendendosi quel retroterra etico-morale, di regole dei diritti e doveri, di coscienza civile, la cui diffusione non può astrarre né da una declaratoria ordinamentale riscontrabile nella programmazione scolastica né, conseguentemente, dalla pratica costante, nell'effettivo insegnamento, di interdipendenza tra disciplina storica e formazione della futura cittadinanza. 

Da tale punto di vista, non si può che desolatamente certificare l'idiosincrasia congenita del sistema a trarre le conseguenze degli slanci innovativi, quando non addirittura la tendenziale regressione rispetto a certe acquisizioni del passato, transitorie ma ben indirizzate. 

Nella scuola frequentata da chi scrive (per non ingenerare dubbi, già nel 20° secolo!) la disciplina storica, largamente ingombrata da segmenti della preistoria, della storia romana e medioevale, copriva il periodo risorgimentale e lambiva (per continuismo col passato? per evitare imbarazzi a coscienze non esattamente in linea col cambio di passo alla democrazia?) il ciclo della Grande Guerra, presumibilmente stimata corollario retorico del ciclo precedente. Un'impostazione questa che consegnava ad una sorta di tamquam non esset una conoscenza minimamente critica della Grande Guerra, del Ventennio, della Resistenza e della Liberazione, della transizione alla Repubblica! 

Per non dire, poi, della totale assenza di un qualche minimale sforzo d'inquadramento dell'apprendimento mnemonico nel più vasto contesto di acquisizione degli strumenti critici chiamati ad orientare la formazione civile. 

Tale era lo stato dell'arte dell'educazione dei nati a ridosso della Repubblica e dei baby boomers destinati a diventare futuri cittadini. Bisognerebbe aggiungere, sul piano della individuazione di qualche nesso di causalità alla base di un format gravato da tanta arretratezza, che in quella seconda metà degli anni cinquanta ed inizio sessanta la gran parte del corpo docente si era formata nei precedenti decenni. Fattispecie che incasellava irreversibilmente la categoria negli assi portanti di un regime che ne avrebbe fatto, con il quotidiano ricorso alla retorica apologetica, un ceto elettivo. 

Il cui background educativo, per quanto trasformisticamente silenziato o, per convenienza quotidiana, represso, finiva (a base di ammiccamenti, di omissioni, di detti e di non detti), per costituire una condizione di accompagnamento di quella terra di nessuno costituita da quelle politiche scolastiche sostanzialmente continuistiche o nel migliore dei casi inerziali o neutre, comunque del tutto incompatibili coi nuovi contesti.  

Solo nel 1958 lo slancio innovativo di Aldo Moro, ministro della Pubblica Istruzione, teso a precorrere i tempi di una nuova fase politica orientata in senso progressista, introdusse l'insegnamento dell'educazione civica nelle scuole medie e superiori: due ore al mese obbligatorie, affidate al professore di storia, ma senza valutazione. 

Già “il termine senza valutazione” direbbe sufficientemente, in un Paese come l'Italia in cui il merito anche quando è codificato costituisce un'evanescenza, del solito scontato approdo di un'innovazione che invece partiva da presupposti virtuosi. 

La facciamo breve. Tale intuizione e tale slancio funzionavano, non già, come abbiamo appena osservato, su base sistemica, ma su empirici presupposti volontaristici. 

Della formazione di quel ceto docente abbiamo detto. Ergo, non avrebbero potuto sortire da lì le chances di affermazione concreta di quell'indirizzo teso ad ancorare la crescita della coscienza civile dei futuri cittadini alla conoscenza critica della storia (in particolare di quella contemporanea). 

Se ti fosse capitato (come capitò allo scrivente, che pagò, con un esame di riparazione, la propria idiosincrasia alle esplicite nostalgie del titolare, peraltro, di una materia tecnica) qualche docente “refrattario” capivi a quindici anni che, nell'economia del piano di studi, il rating di educazione civica era meno di un optional, una sine cura. 

Nel prosieguo poteva capitare, come fortunatamente capitò, di incontrare educatori di ben altro spessore etico-morale; per i quali, a prescindere dalla specificità delle discipline, la correlazione tra apprendimento del sapere e crescita civile costituiva correlazione assiomatica. 

Se ne citano, con senso di gratitudine, alcuni: il professor Casella (già Provveditore temporaneo nominato dal CLN), il professor Cocchetti (con non sottaciuti trascorsi antifascisti), il professor Enrico Maffezzoni e, soprattutto, il preside Professor Bosco (un educatore e dirigente scolastico innovativo fortemente in linea con gli indirizzi scaturenti dalla Repubblica, proveniente da una mai nascosta testimonianza liberalsocialista). 

Fu così possibile che l'educazione civica lasciata fuori dalla porta dalle neghittosità, incardinate tanto dalle aporie ministeriali quanto da interessate indolenze soggettive, poteva, grazie agli slanci ideali ed etici di alcuni docenti, rientrare dalla finestra. 

Per molti di noi studenti di quell'epoca questa dedizione costituì il volano che fece crescere quegli impulsi, in parte provenienti dal retroterra famigliare, destinati a condurre, nel prosieguo, alle opzioni ideali ed alla militanza politica. 

Nella coscienza di chi scrive il benefico stigma fu impresso dalla celebrazione del Ventennale della Liberazione; allestito sotto lungimirante impulso della giunta provinciale di centro-sinistra guidata dall'antifascista cattolico avv. Ghisalberti. 

Il parterre degli studi superiori era a quell'epoca prerogativa prevalente del ceto medio. I cui rampolli erano maggioritariamente influenzati da un retroterra famigliare significativamente conservatore e recalcitrante, molto recalcitrante al cambio di passo verso la democrazia. 

L'antifascismo veniva quasi scambiato per una brutta parola. I suoi giovani testimoni costituivano una modesta minoranza. Mentre la stragrande maggioranza dei consensi si indirizzava all'associazionismo studentesco influenzato in senso nostalgico. Che disponeva di mezzi soverchianti, come una testata in cui si sarebbero formati giornalisti poi confluiti nel giornalismo professionista. Che svolgeva una costante attività politico-propagandistica collaterale alla formazione neo-fascista (scioperi per Trieste italiana e di condanna dell'eversione terroristica del Tirolo), in parallelo con una promozione più disimpegnata ma di grande appealing anche per i portatori di istanze meno idealizzate (le feste ed i concorsi di Miss Mappamondo, in cui trovarono consenso anche belle ragazze nel prosieguo destinate a carriere politiche di segno opposto). 

La lunga premessa, che parte da una profonda constatazione di uno scoraggiante nihil novi sub sole, per constatare che, dal punto di vista del concreto approdo del sistema educativo imperniato nel binomio sapere/coscienza, su per giù (a dispetto dell'ispirazione di una Costituzione che compie settant'anni) siamo fermi al palo di mezzo secolo fa. Periodo in cui la “soluzione finale" inteso come totale sterminio era o sconosciuta o poco praticata nella denuncia. 

Una percezione questa che rende ancor più disarmante la constatazione, come osservavamo nell'abbrivio, di un diffuso degrado delle tensioni ideali e civili, della vita pubblica, del quasi totale smarrimento di quelle coordinate che, pur con diffuse claudicanze, hanno garantito un lungo periodo di liberaldemocrazia riconosciuta e praticata, di evoluzione dei diritti, di una certa giustizia sociale. 

Uno smarrimento che qualche tempo addietro, nel corso della presentazione di uno dei suoi ultimi saggi apprezzati, ha indotto il professor Franzinelli, storico del fascismo e dell'età contemporanea, ad individuarne la causa principale, più che nelle persistenze neofasciste, in malaugurati smottamenti nella tenuta democratica. 

La nostra generazione sul terreno dell'inversione di siffatta deprecata deriva forse non ha più molto da dare. 

Le residue possibilità sono affidate al successo dell'investimento comunitario nella crescita di nuove generazioni, educate nella conoscenza e nella piena consapevolezza del passato. 

Solo così potranno essere salvaguardate le premesse per una ripartenza di quella cultura civile che trae linfa dai grandi idealismi imperniati nel primato della dignità umana, nel bilanciamento dei diritti e dei doveri, nella tolleranza e nel rispetto delle idee e della differenza. 

Oh, certamente tale impresa trarrebbe giovamento dal rilancio della famiglia, da un ritorno performante della vita pubblica con virtuose ricadute nelle percezioni individuali. Ma, ripeteremo fino alla noia, la chiave di volta sta non solo nell'individuazione di un modello di società civile corrispondente ma in modo particolare in un percorso educante a sforzo plurale. 

Ed il perno non può che risiedere nella scuola. 

Nella rivisitazione che abbiamo compiuto della (sempre carente ed omissiva) filiera scolastica di formazione della coscienza civile abbiamo particolarmente sottolineato la dedizione delle fasce docenti più sensibili e più impegnate. 

È con queste realistiche, ma nonostante tutto fiduciose, consapevolezze che abbiamo salutato salutiamo l'edizione 2018 (la ventitreesima) del viaggio della memoria, diretto a Dachau. Così come abbiamo salutato con entusiasmo e gratitudine "1933 - 1945 Lager Europa", il bellissimo libro fotografico di Ilde Bottoli e Francesco Pinzi per celebrare la "Memoria" 

Siamo certi che il pellegrinaggio, proiettato in una proficua opportunità di più ampi apprendimenti, servirà, attraverso l'arricchimento del sapere e del diretto contatto con uno dei teatri delle atrocità di una storia (che forse non è del tutto passata), a sterilizzare le coscienze dei giovani cittadini dal rischio dell'indifferenza civile e dell'agnosticismo ideale. 

D'altro lato, abbiamo testato l'efficacia di questo impegno missionario a contatto con le precedenti edificanti iniziative. Che, come nel caso della recente celebrazione della Giornata della Memoria, delle iniziative promosse dal Panathlon sul tema “memoria e sport” e dell'incontro con la Senatrice Liliana Segre, si è sempre, grazie alla lucida lungimiranza della rete scolastica, animata dalla passione di valenti docenti e del coordinamento di Ilde Bottoli, mantenuto aderente alla sua precipua funzione. Apprezzabile per gli intenti fecondi ed anche, se si pone mente all'impegnativa fase preparatoria del pellegrinaggio, alla sollecitudine propedeutica.  

Per ciò che può valere, non sono mancati nei confronti dei tre giorni dedicati alla visita al campo di Dachau (e non mancherà mai nel prosieguo) la nostra gratitudine ed il nostro sostegno. 

Che manifestiamo attraverso il nostro lavoro pubblicistico e la collaborazione convinta a tutte le attività che si collocano in tale virtuoso alveo divulgativo e formativo. 

Ce lo impongono la piena condivisione dell'apprezzabile testimonianza di cui abbiamo appena parlato e la consapevolezza di una generale involuzione nel sentiment e nel concept rispetto ad acquisizioni che troppo disinvoltamente avevamo, per quanto mai universalmente metabolizzate, archiviato come consolidate ed irreversibili. 

Ci riferiamo ad un evidente riposizionamento del baricentro della coscienza collettiva sul terreno della reversibilità dei diritti universali. Il processo involutivo, in atto a livello continentale, postula manifestamente la tendenza, ormai maggioritariamente condivisa in certi contesti nazionali ed in altri potenzialmente candidato a diventarlo, alla messa in discussione delle prerogative democratiche e liberali, quali abbiamo fin qui conosciuto e praticato. 

Non passa inosservato il combinato della revisione, che si vuol fare del sistema liberaldemocratico, e della riproposizione di certe letture del passato. 

La facciamo breve perché si è facilmente capito dove vogliamo parare. Andando per sintesi, ci riferiamo sinteticamente all'involuzione antidemocratica in atto in un paese, la Polonia, diventato capofila di un più vasto processo revisionistico che tocca una parte consistente dell'Europa politica. 

Sviluppata con un'evidentissima sinergia tra le conseguenze concrete delle pulsioni plebiscitarie tendenti ad una verticalizzazione degli ambiti e degli istituti democratici ed il retroterra storico, culturale ed etico che ne è matrice. 

Dentro tale visuale si distingue abbastanza nitidamente il nesso di causalità tra lo spostamento all'indietro delle lancette della progressione democratica ed un campionario di revisionismo storico di evidente rigurgito nazionalistico quando non negazionistico; con cui si vorrebbe offrire un viatico ad un ritorno al fosco passato, preesistente al ciclo ormai concluso dell'influenza sovietica. 

Ne è rivelatrice l'iniziativa legislativa, che prima o poi inizierà a produrre i suoi effetti anche giudiziari, con cui il Parlamento polacco ha recentemente codificato il principio secondo cui i “campi” dove vennero sterminati milioni di ebrei non erano polacchi.  

Un'astruseria, che dietro la supposta tutela della verità storica, malcela quei nervi scoperti mai del tutto archiviati nella coscienza collettiva di una vasta aliquota di un'Europa centrale ed orientale, impermeabile a qualsiasi definitivo affrancamento da quelle ipoteche sciovinistiche e negazionisti che. Che, risalenti allo scenario pre-bellico e (ancorché mimetizzate) persistenti nel ciclo della Cortina di Ferro, sarebbero state liberate da un ciclo post-comunista immaginato diversamente dai suoi reali sviluppi. D'altro lato, la coartata metabolizzazione nell'internazionalismo sovietico (suscettibile di sprigionare nel corso di mezzo secolo consistenti ribellioni) era forse rivelatrice più che di una testimonianza di appartenenza ad un'intima coscienza democratica, di una sotterranea condivisione delle prevalenti basi nazionalistiche, antidemocratiche ed antisemite, comuni (si avrà motivo di constatare) all'oppresso ed all'oppressore. 

Si è sempre e giustificatamente attribuito all'idiosincrasia di consistenti segmenti dell'opinione pubblica tedesca nei confronti dell'emersione delle reali natura ed entità della soluzione finale il movente di un atteggiamento collettivo costituente (attraverso la rarefazione delle fonti documentali ed il depistaggio nel raggiungimento delle location in cui si manifestò la Shoa), il retroterra del negazionismo. 

Come anni fa osservavamo nella recensione/approfondimento di “Tre Viaggi nel passato: Mauthausen – 1956 Auschwitz – 1958 Dachau – 1961”, la brochure con cui, per iniziativa di Mario Coppetti, furono ristampate le memorie di Adriano Andrini un vero antesignano della promozione dei viaggi della memoria, tali viaggi (in forma individuale, collettiva od addirittura istituzionale) non erano così scontati. Almeno sino alla fine del decennio successivo alla conclusione della tragedia della seconda guerra mondiale ed almeno nei contesti mitteleuropei di influenza occidentale, in cui, ripetiamo, era forte, insieme all'imbarazzo derivante dalla ammissione e dalla condivisione morale delle responsabilità, l'impulso a depistare l'ansia di sapere, di visitare i teatri della tragedia, di salvaguardare le fonti ambientali e documentali. 

Allora, per evidenziare le sensazioni di Andrini e Coppetti, suscitate da questi inediti e lungimiranti approcci, osservavamo: “Il cuore dello scritto è naturalmente la descrizione di quanto allora vide e pensò l'autore, in quei luoghi di sofferenza e di morte. Descrizione importante anche per un confronto con gli stessi luoghi come si presentano oggi... Ci sono questi viaggi verso est, allora ben lontani da banali tours, rari, non facili, con aspetti e considerazioni da “oltre cortina di ferro”. Poi si annota dell'imbarazzo e persino della ostilità che si potevano riscontrare in Germania ed in Austria verso visite di questo tipo, per Dachau. È Coppetti stesso che documenta il gelo del Borgomastro di Monaco. Aggiungiamo l'acume e la benevola ironia nelle osservazioni di Andrini sulle caratteristiche di alcune delle persone conosciute in questi viaggi.” 

Oggi ci rivolgiamo a questi 840 testimoni dell'ansia di conoscere quel passato ed ai loro accompagnatori istituzionali e scolastici affinché, pur registrando, diversamente da allora, una positiva inversione di tendenza nella sensibilità civile e nelle istituzioni del popolo tedesco che non ostacolano più, ma favoriscono l'accessibilità alle fonti della memoria e partecipano alla testimonianza del “Mai più!”, restino permanentemente consapevoli dei pericoli regressivi. 

Non va sottaciuta o trascurata l'incombenza di quello spettro di negazionismo o semplicemente di banalizzazione, con cui, attraverso il subdolo tentativo di riscrittura di quella tragedia, si pongono manifestamente le basi, se non proprio di una restaurazione sic et simpliciter, di una reformatio in pejus del modello di libertà e di democrazia conseguente alla sconfitta del male supremo, rappresentato dal nazi-fascismo.  

Il negazionismo (tanto nelle manifestazioni plastiche quanto nelle versioni subdole) nei confronti della Shoa assume, in tale contesto, il connotato prevalente della demarcazione del terreno su cui si intende giocare la partita revisionista. Per riscrivere la storia del passato, in chiave di regressione della storia in corso. 

Si parte (anzi si riparte), da gesti individuali di fastidio e di banalizzazione dell'atrocità, con cui si manifestarono il razzismo e l'intolleranza nei confronti dei “diversi” (per cultura, per convinzione politica, per tratto genetico), per consolidare un sentire collettivo prevalente. Favorevole e funzionale, come dimostra la strumentalità della negazione di ogni responsabilità polacca nello sterminio degli ebrei, a veicolare gli assunti propedeutici al tentativo di accorciare la filiera liberaldemocratica. In Polonia come nel resto d'Europa. 

La declaratoria della campagna di verità storica della destra nazionalista polacca, sinteticamente articolata nel binomio “i campi, dove vennero sterminati milioni di ebrei, non erano polacchi ed è negabile ogni responsabilità polacca nello sterminio” non deve in alcun modo indurre a distogliere consapevolezza e sguardo dalle responsabilità di una società nel suo complesso antisemita. Che, ad eccezione di significative ma minoritarie sensibilità democratiche, inflisse inenarrabili umiliazioni alla comunità ebraica, attraverso il diffuso fenomeno dei delatori che taglieggiavano gli ebrei (che costituivano il 10% della popolazione ed il 30% di quella urbana), e li vendevano ai tedeschi e dei numerosi casi in cui polacchi uccisero degli ebrei prima che potessero essere uccisi dai tedeschi.  

La pur controversa rivolta di Varsavia, risultante del combinato di testimonianza del nazionalismo polacco e delle comunità israelitiche (mentre le altre rivolte significative sarebbero avvenute ad opera delle comunità internate nei ghetti di Bedzin, di Bialystok, di Czestochowa, di Lachwa, di Minsk Mazowiecki, di Cracovia, di Lódz, di Leopoli, di Marcinkance, di Pinsk, di Sosnowiec, di Viunius) avrebbe concorso, unitamente all'altrettanto controverso massacro della foresta di Katyn, all'epica con cui lo scenario polacco post-bellico, inclinante all'osservanza sovietica, favorì una sistemazione storica non completamente corrispondente ai fatti e comunque manifestamente funzionale alla veicolazione di suggestioni propagandistiche. Ed anche se ciò non ci preserverà da ritorsioni polemiche, difficilmente rinunciamo ad esortare a non farsi trarre in inganno dalla vera finalizzazione la beatificazione di padre Kolbe morto ad Auschwitz. Con cui, al di là dell'incontestabilità del valore paradigmatico di questo gesto, appare prevalente l'inclinazione della Chiesa Cattolica polacca di accreditare un'assertività da posizioni di testa nella militanza anti-nazista. Lo furono molte testimonianze cristiane. Ma non lo furono irrefutabilmente ed universalmente i gesti della Chiesa polacca. E se lo furono, ripetiamo, lo furono discontinuamente nella versione di un antinazismo, non immune dalle tossine antisemitiche. Come lo fu, in senso più lato, il profilo aggregato delle comunità ecclesiali di quella che più tardi si sarebbe definita l'area di Visegrád. Guidate, nel periodo considerato, da Mindszenty in Ungheria, da Wyszynski in Polonia e, senza mitria vescovile ma con un elevato rango, Jozef Tiso in Cecoslovacchia (realtà nevralgica in cui testimonierà un forte profilo collaborazionista con il nazismo, anche in chiave antisemita). 

Se è consentita una digressione, osserveremo che nel 1989, con la caduta del Muro, l'occidente si illuse quando immaginò che, con la sconfitta del sistema comunista, la democrazia sarebbe stata destinata a vincere in Europa e nel mondo. I successivi sviluppi si sarebbero incaricati di dimostrare che l'antidemocrazia del sistema comunista non integrava solo spinte favorevoli al modello Occidentale; bensì, anche o soprattutto, l'approdo a tutto ciò che la cortina di ferro aveva negato. E che ci si attendeva dalla riconversione all'Occidente: la società opulenta di quello che era stato il capitalismo, il capitalismo sociale e che stava diventando il post-capitalismo.  

Risorgendo dalle macerie del bolscevismo, sarebbe bastato, nella fase propedeutica, accreditarsi agli organismi sovrannazionali occidentali ed europei come aspiranti all'ingresso nel loro modello. In vista dell'acquisizione del diritto di tribuna nella NATO e nella UE.; considerati, sin dalla fase fondativa, requisito selettivo per l'appartenenza al cosiddetto “mondo libero”, in cui fu universalmente (o quasi) imprescindibile la correlazione tra libertà di mercato e libertà civile. 

Tale precondizione era stata posta all'ingresso degli Stati dal passato autoritario (Spagna, Portogallo, Grecia). Fu naturale pretenderlo dalle realtà fuoruscite dal giogo comunista; in vista del loro affrancamento nel sistema liberaldemocratico e nel novero dei paesi socio economicamente sviluppati. 

Una volta ottenuto il via libera a quelle partnership ed imboccato un modello accumulativo basato su dinamiche ultraliberiste (salvo l'introduzione di diffuse pratiche di protezionismo e di dumping), quasi nessuna di quelle entità post-comuniste avrebbe affrontato la completa metabolizzazione nel modello politico europeo. 

In tutto il mezzo secolo, in cui avevano orbitato nel sistema sovietico, covarono, al di là della sottomissione imposta dai vincoli economici o dai carrarmati od assecondata dalle servili nomenclature comuniste nazionali (salvo forse l'unico caso del comunismo dal volto umano praghese), il proposito di svincolarsi dal blocco sovietico e di approdare ad un modello democratico, compatibile con il mantenimento delle preesistenze nazionalistiche ed autoritarie dello scenario pre-bellico e pre-comunista. 

Di questa tendenza generale è rivelatore il divieto di definizione dei “campi polacchi della Shoa” (con relativo sanzionamento penale), attraverso cui viene mutilata la libera espressione/interpretazione della storia, prodromo di una più incisiva restrizione delle prerogative di libertà e di democrazia. 

Se è consentita un'interpretazione estensiva, quel “mai più!” pronunciato dagli studenti cremonesi al campo di Dachau, indirizzato al ripudio di quelle atrocità, riguarda l'inappellabile giudizio sul passato, ma soprattutto la volontà di combattere il rischio di riemersione della Shoa (giustamente percepita come profilo prevalente di quel combinato di aberrazioni razziali ed illiberali) negli scenari attuali. 

Ancora una volta si assiste, nel contesto europeo ( e forse anche mondiale), alla riproposizione della questione ebraica. Di cui è rivelatrice la (supposta) sottocultura da stadio, da social, da bullismo, che erroneamente si tende (se non proprio per benevolenza certamente per colpevole sottovalutazione) ad inquadrare nelle categorie sociologiche e comportamentali del declino civile. 

Gli sfottò delle tifoserie a base (anche iconografica) di identificazione del male dell'avversario (si fa per dire) sportivo con le vittime simboliche della Shoa o l'esibizione nel rettangolo calcistico di Marzabotto della sinistra simbologia del nazifascismo in alcun modo possono essere ritenuti avulsi da quel processo più generale teso a delegittimare il titolo di appartenenza e a restringere la consistenza della comunità ebraica in Europa. 

Lungi da noi l'intento di teorizzare l'esistenza di basi di intenzionalità in questi meccanismi resi sinergici se non nella teorizzazione nei fatti, vero è, però, che al “lavoro” del terrorismo islamico, tendente all'eradicazione fisica dell'etnia israelitica dai contesti geografici e civili, in cui, da quasi due millenni, essa è accolta (non sempre a braccia aperte) come elemento di piena integrazione e di fecondità civile e culturale, si accompagnano consapevolezze di colpevole sottovalutazione dei pericoli ed, in prospettiva, di complice corresponsabilità. Certo, la storia non si ripete mai allo stesso modo. Ma è separabile la modalità con cui essa si è già espressa ottant'anni fa dalle incontrovertibili evidenze di una certa uniformità con quanto, in un inarrestabile crescendo, accade sotto i nostri occhi. Ci riferiamo ad un episodio, innegabilmente campione, avvenuto a Parigi, 26 marzo 2018. Mireille Knoll, 85 anni, sfuggita ai rastrellamenti operati nel 1942 da nazisti al Vel d'Hiv (velodromo coperto) della capitale francese. Quindi, potremmo dire, una sopravvissuta alla Shoah, ma non all'odio antisemita. Che non è mai cessato del tutto in Europa e che, nella circostanza, se l'è presa con una fragile vecchietta, il cui profilo non ha nulla in comune con lo stereotipo identificativo, cucito, per giustificare la riprovazione, addosso ai magnati della finanza basati in Europa ma operanti a livello mondiale. Nulla in comune con i Rotschild o Soros. Semplicemente una vecchietta, che viveva in solitudine un tramonto esistenziale non esattamente esaltante, in un palazzo di case popolari in piena Parigi, in un contesto di degrado sociale. Funzionale ad una versione derubricata rispetto al retroterra motivazionale, che resta ancorato alla “testimonianza” di odio espressa dai due assassini di fede islamica che le hanno inflitto quindi fatali coltellate e che hanno bruciato il cadavere.  

Per non sottacere altri attentati, che hanno del clamoroso, davanti alle sinagoghe o nei negozi Kosher o quelli, più sensazionali delle mattanze al dettaglio e a domicilio riservate, e che dicono della vastità e della profondità del fenomeno con cui si ripresentano la discriminazione antisemita ed alcuni modelli pratici con cui attuarla negli attuali contesti europei. 

Con l'accompagnamento (nelle diffuse percezioni delle comunità israelitiche distribuite spesso in condizione di sproporzionata minorità e a contatto con l'espressione del soverchiante antagonismo antiebraico) di una certa rilassatezza, da parte dell'opinione pubblica e delle istituzioni, nella percezione (e nell'effettivo contrasto) del fenomeno quale si va diffondendo e della spirale irreversibile che arrischia di diventare. 

Una sorta di flusso migratorio in uscita dagli incalcolabili effetti devastanti sull'asset etico e civile di questa Europa, in cui sempre più europei di cultura ebraica sono indotti, dalla consistenza degli effettivi pericoli come dalla capacità di cogliere rumors e sentiments, che questo continente, in cui essi hanno fornito contributi incomparabili di civilizzazione, non è più la location in cui (pacificamente e sinergicamente) vivere ed operare. 

Se, almeno per quanto si riferisce al continente europeo al netto della realtà tedesca, paragoniamo (e noi assolutamente lo vogliamo, sino al punto da esplicitare nell'immagine che sormonta il titolo l'equivalenza simbolica del sinistro cancello del lager e del volto dell'ottantacinquenne ebrea parigina Mireille Knoll), gli attuali scenari a quelli di ottant'anni fa (quando la sia pure aberrante apparizione di estemporanei gesti di rivendicazione dell'esclusività ariana), non fatichiamo a rilevare un più pervasivo e consolidato clima di ostilità e pregiudizio. 

La cosiddetta questione ebraica torna ad essere, come lo fu negli anni quaranta, il marker prevalente delle tossicità insite nel sistema di democrazia, di libertà, di tolleranza dell'Europa dell'inizio del terzo millennio. 

Se, come abbiamo considerato, manca un lato d'intenzionalità nel favoreggiamento di questa tendenza, manca, altrettanto, un altrettanto profilo di piena consapevolezza della gravità di un atteggiamento omissivo (almeno prima che la tendenza diventi sistemica ed irreversibile). 

Ecco, perché (se ci è permesso) riteniamo che la valenza di quell'imperativo declinato col “Mai più”, rivolta ad esorcizzare il ritorno dell'abominio del passato, debba permanentemente correlarsi alle consapevolezze del pericolo di un ritorno degli abomini nelle modalità scaturenti dalle specificità degli scenari contemporanei. 

Ma dell'esistenza di tali consapevolezze fanno fede la testimonianza educativa degli apostoli della memoria e la matura (entusiastica, sarebbe inappropriato) partecipazione degli studenti ai viaggi della memoria ed al portato educativo che certamente è destinato a svilupparsi in tutto il mondo della scuola. 

Esaurito questo lungo inquadramento, ci apprestiamo a fornire elementi su questo postumo réportage dal nostro viaggio della memoria, che nell'aprile del 1980 ci portò all'inaugurazione del padiglione Italia del campo di internamento di Auschwitz. 

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