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Quattro amici al bar

...e la ruota del criceto. Riflessioni sulla CCIAA di Cremona

  08/09/2020

Di Editoriale

Quattro+amici+al+bar

L'estrapolazione di un titolo immaginifico è, come si comprenderà meglio nel prosieguo, correlata sia all'effetto attrattivo sia all'evocazione dei contenuti della riflessione.

Potremmo, da tale punto di vista, anche aggiungere, sempre sul terreno dell'inanità, un sottotitolo (il gesto di Tafazzi) evocante il valore masochistico, aggiunto, appunto, alla vacuità del pensiero e dell'iniziativa. Perché, diciamolo con franchezza (anche se con dispiacere), il braccio e la mente della sala regia del nostro territorio non costituiscono, da qualche decennio, quanto di meglio una comunità territoriale possa augurarsi in materia di requisiti di progettualità, di prontezza assertiva, di strategie operative.

Diciamo che il punto più basso di questi requisiti, che normalmente si richiedono anche a minimo sindacale a quella che, nel nostro caso, può definirsi classe dirigente, è stato verificato poco più di un anno fa, all'inizio di agosto.

Un periodo del calendario notoriamente poco indicato (anche se con dose minore di ostracismo nei confronti delle partenze programmate per i giorni di martedì e venerdì) per proponimenti impegnativi. Quali potrebbero essere l'inversione dell'ordine delle priorità per il riequilibrio territoriale; che da almeno un trentennio segna per la nostra provincia un pregiudizio biblico.

Orbene, come si premetteva, alla vigilia del ferragosto del 2019, si svolse, convocata non si sa bene da chi (anche, se essendo presso la sede del governo regionale, sarebbe azzardato accampare l'estraneità del padrone di casa), una sorta di stati generali tra vertice e periferia del territorio lombardo. Senza un preciso ordine del giorno, senza la definizione dei partners, senza la prefigurazione di una sia pur minimale conclusione. 

Appunto, en façon della proverbiale combriccola cameratesca tanto ben descritta da Gino Paoli.

Ebbene a quella vigilia di ferragosto, i quattro amici istituzionali del territorio provinciale (che, come avremo modo di realizzare, tanto amici dimostreranno di non essere), si trovarono a Milano (in uno schieramento non di primissima fila) per «parlare con tenacità di speranze e possibilità, per tirar fuori i perché e per proporre i farò».

Oddio, gli amici del bar volevano cambiare il mondo. Mentre quelli provenienti dalla periferia del governatorato si sarebbero accontentati di un segno minimamente suscettibile di invertire l'impressione, diciamo, di una certa trascuratezza.

Come dimostrerà il prosieguo simmetrico del refrain e del “vertice a Milano” i destini si riveleranno comuni: uno con la donna al mare, l'altro con un impiego in banca, per gli amici del bar, e le immancabili pive nel sacco, per gli amici del bar istituzionale.

Sarà pur vero che ai due lati del tavolo mancavano i numeri uno, ma che senso aveva quel forte effetto evocativo dell'annuncio secondo cui tutti i ritardi e le trascuratezze (in primis, l'autostrada Cremona-Mantova) del passato erano praticamente archiviati?

Il testo, discendente dai titoloni del giorno dopo, per il vero davano conto di un traguardo molto nebuloso (al di là dell'effetto annuncio) e, soprattutto, tutt'altro che coesivo, in materia ad esempio del nodo centrale. Al punto che, a dimostrazione dei criteri raccogliticci del tavolo (era presente un ex assessore comunale, la cui partecipazione non è mai stata chiarita), la cronaca successiva fece veramente fatica a dar conto sia di una missione compiuta che di un consenso convinto e trasversale.

Perché, e qui ci avviamo ad imboccare la specifica riflessione -"è così, bellezza!"- che la classe dirigente locale costuma affrontare il deposito di criticità, che, al punto cui siamo giunti, appaiono irreversibili.

Volendo poi essere franchi fino alla spietatezza, è essa stessa, leadership istituzionale e categoriale a farsi percepire come destinataria di un trattamento relazionale che ormai rasenta lo sprezzo e l'improntitudine.

Non dovrebbe essere difficile ricordare che, a lockdown appena sospeso, venne a Cremona una prodiga (di promesse palesemente demagogiche e menzognere) delegatsiya regionale (sia pure di caratura istituzionale inferiore) per esaurìre, alla moda di Totò e Peppino (ma si, fai vedere che abbondiamo), tutto lo scibile dell'incrocio tra aspettative e rassicurazioni. Il nuovissimo ospedale, l'autostrada, l'efficientamento della rete ferroviaria e, abbondandis in abbondandum, la correzione della viabilità stradale ordinaria.

Tutte fanfaluche, destinate a durare lo spazio di un'operazione mediatica, congegnata per distrarre la giusta indignazione nei confronti delle responsabilità del recente disastro della risposta antipandemica e per blandire la latente credulità.

Ma tant'è, si trova sempre qualche interlocutore istituzionale e categoriale della periferia disposto ad alimentare, nella nomenklatura regionale più centralista del mondo, la certezza che se la berranno anche questa e le prossime.

Per dirne un'altra, ricorderemo che la Lombardia avrebbe, come tutte le altre Regioni, dovuto avanzare al Governo (che definire “centrale” forse rende poco l'idea), proposte organiche in ordine alla ridefinizione delle funzioni a mente della “riforma” Delrio (che collocherà nel limbo il livello intermedio meno censurabile dell'intero ordinamento amministrativo). Ma, in sede regionale, l'unica opzione del Pirellone è stata, nel totale silenzio sulla ridefinizione dell'ordinamento provinciale e con l'azzardo dell'autonomia regionale differenziata, l'espropriazione delle attribuzione, originariamente prerogativa della Provincia, dell'agricoltura (che per una provincia come la nostra non si può esattamente definire une bagatelle).

Eh già erano quelli (la seconda metà della seconda decade del primo secolo del terzo millennio) i tempi dell'accorciamento/verticalizzazione della catena del comando politico-amministrativo e dell'efficientamento (sic!) del bacino territoriale dei servizi.

Ed ancora, do you rember la furbata dell'"area vasta", che, accorpando più province, ne avrebbe anticipato di fatto la soppressione?

Alla stessa ratio si sarebbe rifatta la cosiddetta “legge Madia” in materia di accorpamento delle Camere di Commercio (in realtà una vera e propria soppressione degli enti camerali rispetto a come furono concepiti ed istituiti e a come avevano egregiamente operato.

E planiamo così sull'Ente Camerale alla Riforma Madia del 2017, auto-agiograficamente "la Pubblica Amministrazione che cambia". Non che non ce ne fosse bisogno, considerando l'elefantiasi paralizzante di un impianto burocratico, che è il più arretrato del mondo civile e ad un tempo il più onnivoro di risorse e il più paralizzante delle attività pubbliche e private.

Ci poteva stare che l'impulso innovativo del nuovo corso renziano allungasse lo sguardo e gli impulsi operosi a un riformismo complessivo del sistema-paese.

Di cui la “riforma istituzionale” stricto sensu era da considerare l'elemento sia informatore che propulsivo rispetto ad un più vasto contesto.

Ma, evidentemente, se affidi a mani inesperte e ad apparati cognitivi indirizzati prevalentemente da autoreferenzialità e presunzione (come nel caso della giovane ministra, rampolla di una famiglia di burosauri a servizio di tutte le stagioni politiche), non puoi, poi, sorprenderti degli esiti di un processo riformatore che, nel caso della legge Madia, sollecita rimpianti per l'occasione persa, quando non addirittura per gli scenari precedenti.

Va aggiunto che il filo rosso di qualsiasi proposito innovativo di quel contesto politico-temporale aveva come linea guida l'efficientamento in chiave razionalizzatrice - in realtà, come avremo occasione di percepire nel prosieguo - fortissimamente accompagnata dal binario della polarizzazione.

La declaratoria di base delle finalità della legge 7 agosto 2015, n. 124, (c.d. "Legge Madia") è incontestabile almeno dal punto di vista della finalità di aggiornare ed efficientare la disciplina delle  camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, come enti pubblici dotati di autonomia funzionale, che svolgono, nell'ambito della circoscrizione territoriale di competenza, sulla base del principio di sussidiarietà di cui all'articolo 118 della Costituzione, funzioni di interesse generale per il sistema delle imprese, curandone lo sviluppo nell'ambito delle economie locali. 

Altrettanto incontestabile è l'insistita correlazione tra i compiti d'istituto, fondamentali per l'efficienza del sistema economico, ed il riconoscimento dell'autonomia funzionale nell'ambito delle economie locali.

Ora, ritenendo pleonastica una rivisitazione particolareggiata delle funzioni attribuite alla CCIAA e ben note ai più, ci soffermeremo sulla dorsale innovativa della legge, rappresentata prevalentemente sugli effetti della “rideterminazione delle circoscrizioni territoriali, istituzione di nuove camere di commercio, e determinazioni in materia di razionalizzazione delle sedi e del personale" (mediante accorpamento delle sedi (che passano dalle attuali 95 a 60), accorpamento delle Camere di commercio con meno di 75.000 imprese iscritte).

In sé il criterio di ridefinizione della “base” associativa non è, entro certi limiti e contesti, oppugnabile. A condizione che non venga usata come una livella suscettibile di dissestare i presupposti fondamentali dell'ente camerale, che sono l'autonomia funzionale sussidiaria correlata alla territorialità.

È vero che per un punto Martin perse la proverbiale cappa e che una volta definito il principio, non si possono e non si devono fare sconti.

Ma bisognerebbe pur chiedersi se l'unità di misura definita per il mantenimento dell'autonomia sia da considerarsi un po' come la pretesa dell'imperatore Hu della Dinastia Zhou che dedusse l'unità di misura a valere universalmente dalla propria altezza fisica.

Indubbiamente un criterio andava definito; ma non al punto di sacrificare sull'altare dell'efficientamento, che a questo punto farà terra bruciata dei perni territoriali, la vocazione camerale di riferimento della realtà economica ed imprenditoriale.

D'altro lato, lo standard dei 75.000 iscritti (non uno di meno!) andrebbe riferito (come è stato fatto per le deroghe riconosciute alle autonomie speciali ed alle Regioni ordinarie di piccolo taglio), specie quando, come nella nostra fattispecie, la scansione è irrilevante, alla riconosciuta storicità dell'Ente ed alla peculiarità del territorio.

In ogni caso, se passasse (e temiamo, passerà inevitabilmente, anche a causa dell'arrendevolezza del ceto dirigente categoriale ed istituzionale del nostro territorio), il saldo algebrico della “riforma” sarà rappresentato, oltre che, come abbiamo anticipato, dalle complicazioni di accesso ai servizi, soprattutto dall'annientamento della missione camerale, non specificamente codificata ma iscritta nel patrimonio di consapevolezze della comunità e degli operatori economici. Che è stata per oltre un secolo una concreta capacità di conoscenza e di anticipazione delle tendenze socio-economiche e di testimonianza  della volontà di modernizzazione e di sviluppo.

Forse la nomeklaturina associativa non lo sa. Ma ci fu un tempo, molto differente da quello corrente, che la Camera di Cremona fu, di concerto con il ceto elettivo, anticipatrice delle significative svolte (purtroppo, limitate e tribolate, per responsabilità dei superiori poteri) suscettibili di cambiare e di incidere in termini di sviluppo.

Ci riferiamo alla costruzione dell'Autostrada Centropadana, scaturita dall'intuizione e dalla tenacia del vertice camerale, presieduto dal cav. Maffei, all'inizio degli anni sessanta del precedente secolo.

Ci riferiamo anche al lungimirante progetto della navigazione fluviale e della portualità interna, di cui, insieme vertici istituzionali locali, furono mentori visionari il successore ing. Loffi, il segretario generale dott. Genzini ed il Sen. Giovanni Lombardi, ispiratore della Comunità Padana delle CCIAA.

Il loro soffio ispiratore di sviluppo e di modernizzazione si è da tempo, prima affievolito e poi del tutto spento.

Sicuramente non risorgerà nel futuro di un Ente Camerale lobotomizzato nella capacità di cogliere le aspettative del territorio.

Che, come abbiamo da tempo avuto modo di accertare, non rientrano più, se non per sprazzi di recriminazioni assolutamente marginali, nelle corde di un ceto dirigente.

Che ha dato il meglio di sé sulla vicenda camerale, prendendo a modello la gabbia del criceto o il gesto di Tafazzi.

Non vogliamo infierire, ma che senso ha l'esternazione del consigliere regionale Piloni (che, per inciso, abbiamo contribuito ad eleggere), secondo cui: «l'accorpamento a tre è migliore rispetto a quello a due sole Cremona e Mantova».

Quanto lo sia lo deve dire, in particolare, agli operatori cremaschi che, in futuro, avranno come riferimento un Ente la cui sede mediamente dista un centinaio di chilometri (per non dire del bacino pavese).

Fermo restando la nostra idiosincrasia nei confronti di questa logica trilussiana che sembra presiedere alle linee guida della convergenza forzata, cosa avrebbe ostato ad un indirizzo (di fissazione della sede camerale) impegnativo per opzioni territorialmente baricentriche?

Il problema prevalente, specie di fronte alla prospettiva che la convergenza finisca sotto le prerogative del commissario ad acta, appare, dalle dichiarazioni degli apparatini categoriali, prevalente, strategica, non la messa in discussione di una riforma che finirà per eradicare le basi dell'autonomia territoriale, bensì la precarietà di “accordi, equilibri già definiti, garanzie ben precise sulla sede (la governance) di Crema e, sostanzialmente, sugli aspetti economici in ordine al sostegno ad imprese ed altre realtà”.

Da cui traspare l'evidenza di una precarietà discendente da una visione consociativa (in senso ovviamente spregiativo) che accantona la priorità strategica e privilegia aggiustamenti, che non essendo di rango legislativo, vengono iscritti sulla sabbia. E, comunque, sono destinati allo spazio del mattino della duration dei contraenti in carica.

D'altro lato, il presidente camerale in carica ha, in piena empasse, esternato: “noi siamo sempre stati favorevoli alla fusione” (specie nella versione, aggiungiamo noi, discendente dallo scambio tra l'accettazione dell'assorbimento e la continuità del proprio incarico presidenziale).

In conclusione, qui vogliamo finire un approfondimento ed una riflessione che, al di là delle nostre sincere intenzioni, ci porterebbe su terreni, contigui, ma non esattamente fecondi. Che riguardano, e lo diciamo senza assolutamente voler ledere l'onorabilità di chicchessia, la caratura della classe dirigente. Dell'associazionismo categoriale, ormai del tutto uniformatosi alle cattive posture del ceto politico ed istituzionale. Ne sono prova la rarefazione degli apporti progettuali, la frammentazione associativa, funzionale al mantenimento di apparati mestierizzati (come la politica), la tendenza a cercare le contrapposizioni di bottega anziché l'armonizzazione e la ricerca della convergenza.

La convergenza che c'è solo quando, come nel caso della Fiera, c'è una spartizione larga (un Consiglio che da 5 componenti passa a 17).

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