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Lettere all'ECO /62

  10/06/2025

Di Redazione

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Avevamo titolato la Chiosa del precedente numero della rubrica “A proposito di silenzio stampa della “vigilia”… che saremo gli unici a rispettare!”.

Ma sia per conseguenza del convincimento “di non buttare via niente” sia per correttezza relazionale con i nostri lettori e corrispondenti, riportiamo appresso la lettera giunta fuori tempo massimo, rispetto alla dead line  del silenzio stampa.

Per quanto non sovrapponibile alla linea redazionale, l'impianto del contributo ci sembrava, per quanto non condivisibile, corretto e rispettabile. Soprattutto, alla luce di un impulso di certi storytelling a proiettare la testimonianza ben oltre il tempo (e i risultati effettivi), degna di essere comunicata anche in questo contesto post-lucano.

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Caro Eco, sono rimasto molto sorpreso di leggere la posizione del non-voto ai referendum abrogativi dell'8 e il 9 giugno.

Ricordo che i quesiti sono 5, tre di essi riguardano norme introdotte dal cosiddetto "Jobs Act" del governo Renzi. In particolare due coinvolgono la materia dei licenziamenti illegittimi e un terzo l'uso (o per meglio dire l'abuso) dei contratti a termine. Un quarto quesito riguarda la normativa sugli infortuni sul lavoro. Non credo sia necessario dilungarmi sull'importanza della materia.

Infine il quinto quesito, sulla cittadinanza. 

La battaglia si gioca sul quorum ed è importante che più gente possibile vada a votare per il SÌ, ed è del tutto superfluo spiegare perché.  Ritengo altrettanto superfluo entrare nel merito di ogni singolo quesito: è sufficiente leggerli, informarsi. 

Leggo nell'articolo dell'Eco che il referendum avrebbe secondi fini, “i 5 quesiti in realtà sono sempre stati paradigmi, singoli e collettivi, finalizzati ad aggregare carne da cannone per la politica polarizzata”. Orbene, l'astensione non fa un dispetto ai presunti secondi fini, semmai sputa in faccia ai lavoratori, ai loro diritti, alle loro tutele, al loro bisogno di essere difesi. E questo non mi piace per niente.

A.P. 7 giugno 2025

Il messaggio è composto, ben strutturato e, probabilmente, ispirato dal fine fecondo di mantenere aperto il confronto. Cose che con questa edizione e probabilmente con alcune successive faremo.

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Caro Eco, sono in un momento di pigrizia mentale e la mia riflessione sul flop dei referendum è come " la morte annunciata". Il quorum è da abbattere se si vuole che ci sia democrazia vera, i cittadini che votano hanno diritto di avere responsi in base alla conta dei si o dei no. I politici mi hanno nauseato rivendicando il diritto di non votare. Mattarella ha dato il buon esempio. Adesso la destra farà una propaganda urlante contro lo spreco di denaro pubblico. Che dire vero è che " piazze piene e urne vuote" sono ciò che stiamo vivendo.

C.L. –Vicenza 9 giugno 2025

REFERENDUM, CGIL CREMONA: “UNA DELUSIONE, MA NON CI FERMEREMO. SERVE UNA NUOVA ALLEANZA TRA DEMOCRAZIA E GIUSTIZIA SOCIALE”

Non è andata come speravamo, ed è inutile negarlo.
Siamo delusi dal mancato raggiungimento del quorum, perché non si trattava di un voto su un partito, ma di un'occasione per contrastare un mercato del lavoro sempre più precario e insicuro.

Il risultato rappresenta, prima ancora che una sconfitta politica, un segnale profondo di crisi democratica. Non è solo una consultazione fallita: è l'ennesima conferma della difficoltà, nel nostro Paese, a riconoscersi negli strumenti di partecipazione e a sentirsi parte attiva di una visione collettiva.

Il clima attorno al referendum – al netto del sostegno della “nostra gente” – è stato segnato da scetticismo, distanza, indifferenza. Le ragioni non mancano: un'informazione mediatica scarsa e frammentata, un dibattito pubblico polarizzato, ma soprattutto una sfiducia generalizzata nei confronti della politica, percepita sempre più come autoreferenziale e distante dai problemi reali della vita quotidiana.

Quando il lavoro perde dignità, quando i diritti vengono ridimensionati, quando lo Stato sociale viene smantellato pezzo dopo pezzo, non sorprende che le persone smettano di credere nella possibilità di un cambiamento.
Eppure, questo referendum – che toccava temi sensibili legati al mondo del lavoro e alla giustizia sociale – avrebbe potuto essere un'occasione per invertire la rotta.

Nonostante l'esito, il percorso compiuto in questi mesi è stato importante. Ci ha permesso di tessere nuove relazioni e rafforzare alleanze con associazioni, movimenti e partiti. Il nostro auspicio è che questo lavoro comune possa proseguire nelle prossime sfide, con lo stesso spirito di condivisione e impegno per la difesa dei diritti e dei valori costituzionali.

I temi che abbiamo posto al centro di questa campagna non scompaiono con il risultato referendario. Continueremo a batterci contro la precarietà, per il contrasto ai licenziamenti illegittimi, per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro.

C'è bisogno di un progetto forte, collettivo, condiviso. Le battaglie della CGIL non si fermano: vogliamo rimettere al centro il lavoro come leva di emancipazione, la scuola e la sanità pubblica come fondamenta della cittadinanza.
Serve, in una parola, una nuova alleanza tra democrazia e giustizia sociale. Perché senza partecipazione, senza uguaglianza, senza lavoro dignitoso, la parola democrazia rischia di essere solo una parola vuota.

Elena Curci Segretaria Generale CGIL Cremona

Referendum su lavoro e cittadinanza: un'Italia che resiste, nonostante tutto

È inutile girarci attorno: il quorum non è stato raggiunto. E, sebbene sapessimo che sarebbe stato un traguardo proibitivo, il nostro obiettivo era cambiare leggi ingiuste. Ci abbiamo provato con coraggio, a viso aperto, nella consapevolezza che il risultato sarebbe stato difficile, ma la battaglia necessaria.

I problemi che questi referendum, pur senza la pretesa di risolvere tutto, volevano affrontare restano tutti sul tavolo: la precarietà, l'assenza di tutele, un lavoro sempre più povero, le centinaia di migliaia di infortuni e le troppe morti sul lavoro, specialmente negli appalti. E restano anche tutte le persone che lavorano, pagano le tasse, studiano, vivono in Italia, sono italiane nei fatti ma non sulla carta.

Sono temi che meritano risposte, non silenzi e che questa campagna, pur non centrando l'obiettivo, ha rimesso al centro del dibattito.
È un peccato che la destra abbia deciso di politicizzare questi referendum. Ma lo ha fatto con la codardia di chi si sottrae al confronto democratico, cavalcando irresponsabilmente un astensionismo già alto, ormai strutturale a ogni tornata elettorale.

Le analisi sono molteplici, ma una è evidente: questa destra ha paura del voto e della democrazia. Lo ha dimostrato con la chiamata all'astensione, con il boicottaggio mediatico — secondo AGCOM, meno dell'1% dello spazio nei TG e nei talk è stato dedicato ai referendum — con la scelta di una data infelice, buona solo per invitare la gente al mare, e con la strumentalizzazione del referendum sulla cittadinanza, travisato con slogan tossici come “la cittadinanza non si regala”, senza mai entrare nel merito.

Un patriota non ha paura del voto.
Un patriota non resta indifferente di fronte a centinaia di migliaia di giovani costretti a emigrare per colpa di un mercato del lavoro che li sfrutta e li priva di prospettive.
Un patriota non può voltarsi dall'altra parte quando il lavoro uccide, in nome del profitto.

Eppure, nonostante tutto, a votare ci sono andati in oltre 15 milioni. In attesa dei dati definitivi, sappiamo che moltissimi di loro lo hanno fatto per dire SÌ. Hanno scelto la partecipazione, non l'indifferenza. Hanno scelto di opporsi a una campagna mediatica antidemocratica e all'oscuramento della politica.

È un'Italia che resiste.
Un'Italia che vuole un'alternativa, che pretende un futuro.
Un'Italia che la destra ha deciso di non ascoltare e, anzi, di mettere a tacere.
Un'Italia che oggi è una grande minoranza, ma che sarà presto maggioranza.

E non possiamo ignorare il dato più amaro: oltre il 70% degli aventi diritto ha scelto di non votare. Una parte lo ha fatto su consiglio della destra. Ma siamo convinti che molti siano semplicemente sfiduciati, stanchi, arrabbiati.
E allora è nostro compito, con coerenza e concretezza, uscire dalle ambiguità e ridare fiducia.
Parlare chiaro. Costruire un'alternativa solida. Ricostruire senso, partecipazione, cittadinanza.

Usciamo dall'indifferenza.

In ultimo, un grazie sincero a tutte le persone che in tutto il Paese, e non meno nella nostra provincia, si sono spese con generosità, passione e competenza per questa scalata difficilissima. È l'Italia solidale, che non si risparmia, che non si arrende, e che crede in un futuro che — ne siamo certi — ci riprenderemo.

Paolo Losco Segretario provinciale Sinistra Italiana Cremona

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Ovviamente aspettiamo altri contributi, oltre a quei primi due, appena riportati sopra e apparentemente usciti dalla stessa penna.

Fa onore che lo scenario post referendario non mobiliti prevalenti posture da tutti a casa.

Ma ci farebbe molto piacere (e non per ragioni di par condicio) si scaldassero gli impulsi ad approfondire anche sull'altro versante.

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Confronto tra due coniugi. Di cui uno, di nome Alberto Nardi, autocandidatosi alla vedovanza, che chiede alla moglie: “Mi sai dire cara che cos'è un megalomane?”

ADR (a domanda risposta, come si dice nei verbali) l'interpellata, Elvira Almiraghi, risponde: “Un megalomane è uno che si crede superiore a tutti, invece è un cretino ridicolo, che si circonda di incapaci»

Soggiungendo, a beneficio dei convitati, l'epiteto diretto al marito: “Il mio Cretinetti”. Non è la fattispecie della “ditta” che si è imbarcata nell'impresa suicidaria traguardata poche ore fa, ma calza molto la definizione della megalomania.

Cosa volete, cari lettori, non ci è venuto di meglio in termini di ricerca di assist cinematografici, che questo brandello del “Vedovo”. Che utilizziamo come spunto riflessivo, adiuvante nella ricerca delle ragioni di questa debacle.

Ci solleva, nella severità che riserviamo alla dissennatezza della parte soccombente, l'idea che almeno idealmente e teoricamente ci siamo ritenuti, fino a poche ore fa, appartenenti, lato sensu, alla stessa visione.

A dispetto del "bagno" referendario, cinicamente dispensato come la panacea di tutte le incombenti ingiustizie e criticità, il board del campo largo aveva ab origine fissato una seconda linea di successo: 12,3 mln di partecipanti?  di votanti le abrogazione? Con cui si sarebbero (male fosse andata)  uguagliati consensi elettorali delle Legislative incassati dal centro destra nel 2023. Un obiettivo non dichiarato nelle premesse della campagna referendaria, che direbbe del valore etico e idealistico della medesima e che, al contrario sta rivelando più di quanto necessario la vera intenzionalità del panel: il tentativo di testare sul terreno elettorale di armonizzare e convergere in  direzione dell'aggregato "campo" largo di profilo radicale, massimalista, populista

D'altro lato, tal Boccia, da giorni ha avuto l'impudenza di affermare: “Se votano più di quelli che hanno eletto Meloni, sarà un primo avviso di sfratto”

Quel che si suol dire,la linea del Piave, di una campagna scombiccherata dall'origine: contenere i danni del non raggiungimento del quorum.  In cui, lo si scopre adesso, nessuno ha mai creduto, all'interno del "campo" largo o stretto che fosse o sarebbe. La constatazione fattuale non segna solo un insuccesso tattico, bensì sigilla un disastro strategico. Il "campo" non è competitivo come alternativa di mobilitazione popolare a livello etico civile e sociale nè come credibile chance di alternanza negli equilibri parlamentari e nei rapporti elettorali. La non competitività di questo Circo Barnum risulta conclamata ed evidente anche, semmai fosse stato necessario, dalla punzonatura referendaria. È bene che se ne faccia una ragione non tanto il praesidium del campo (che prevedibilmente non desisterà mai dal suo cinico nihilismo), quanto la fascia riformista, collocata sui perni del lib lab e su quelli del moderatismo laico e liberale

Una smargiassata propagandistica fatta passare come un perentorio messaggio inviato alla premier. Capirai che paura!! Per di più queste prove "di unità di sinistra" giocate e veicolate su un parterre declamatorio congeniale all'armamentario populistico dei 5s, oltre al danno di estromettere (e sarebbe ora) il segmento della sinistra riformista, porterebbe inevitabilmente le frange dem omologate a preferire l'originale (5stellato) rispetto al servo sciocco

 Clima di sorpresa e di delusione..., anticipavano le grandi tesate stamane

Ce n'è di che. A cominciare dal fatto incontrovertibile della conclamata delegittimazione del senior partner del Comitato Si, la CGIL, il prevalent partner del sindacato, un tempo l'ammiraglia dell'organizzazione sindacale. Secondo una vulgata il suo range di influenza politica ed elettorale veniva stimato coincidente con tendenza alla superiorità  con il perimetro della sinistra, lato sensu. Il semplice parametro dell'affluenza alle urne referendarie dimostra, nell'ambito di un'analisi perniciosa ben più ampia, che il Sindacato (la CGIL, ormai diventata la proiezione dello "zoccolo duro" delle organizzazioni sindacale) è diventato un (dis)valore aggiunto della sinistra. Ha dimostrato in tutto ciò che è avvenuto dopo San Valentino del 1984 di aver perso totalmente la capacità di lettura dei macrofenomeni socioeconomici correlati al lavoro e, soprattutto, il contatto con la cultura dell'incidenza nella dialettica collettiva e nella concertazione a livello di politica dei redditi e di riconosciuto ruolo dei lavoratori in una visuale molto più vasta. Era stato così nel ciclo della "ricostruzione" e in quello del "miracolo", giocati su un terreno di scontro titanico. Su cui ebbero grande influenza sia le correnti tradizionalmente "riformiste" (come CISL e UIL) sia quella apparentemente antagonista la CGIL. Che in realtà giocò dal patto di Roma del 1944 un fondamentale ruolo trainante delle masse e di progettualità (si pensi al  Piano del Lavoro, anticipatore della Programmazione Economica e della Statuto dei Lavoratori). Anche grazie all'ampio credito e levatura di un eccezionale gruppo dirigente (Di Vittorio, Brodolini, Santi, Lama). Ok nelle retrovie c'erano anche un po' di nonni dei Landini. Ritenuti utili al ferreo controllo dei periferici cortili del demagogico massimalismo. Il problema è che da decenni non ci sono quelle grandi figure sindacali. Il "convento" di adesso passa controfigure come Landini. Il convento che, all'inconcludente starnazzo del populismo demagogico, ha di fatto sguarnito il presidio della fabbrica e della contrattazione, collettiva, integrativa e degli ammortamenti sociali. Accettando di fatto il ridimensionamento, se non addirittura la revoca delle prerogative di player civile e sociale. Con ruoli distinti dalla costituency politico-istituzionale, ma ad essa complementari. Da anni ormai il Sindacato, in cui non operano più le "incompatibilità " dirigenziali  con i Partiti (al punto che le nomenklature della Cgil e del partito della sinistra radicale si sovrappongono), è percepito come prevalente dispensatore di "servizi" (Patronato e Caf). Sciaguratamente il mondo del lavoro accetta questo stato di cose, rivelatore dell'amputazione dal "tavolo" della concertazione socioeconomica  generale di una "gamba" fondamentale. Che recentemente ha (la CGIL, si intende) rifiutato la scesa in campo per l'interpretazione del competente ruolo di protagonista al tavolo della "compartecipazione" (di cui all'art. 46  della Costituzione e della recente Legge Sbarra), su cui c'è da giurare torneremo. Già era impegnato sull'abrogazione per via referendaria delle quattro leggi, che, per quanto migliorabili, furono speculari ad una cultura di concertazione gradualità e riformista. Ciò che agli occhi di un sindacalismo guidato da Landini è qualcosa di più del proverbiale aglio per dracula.  Una volta anche ribadita la sovrapponibilità teorica e somatica delle due leadership trainanti il "pacchetto" referendario (Landini e Schlein), lo sforzo  ermeneutico delle precondizioni e del portato di questa "campagna" dovrà integrare la consapevolezza che queste due apparentemente distinte leadership costituiscono una esiziale zavorra per una sostenibile rappresentanza della cultura del lavoro, i senso sociale e politico. Concludiamo con un ammonimento alle molte voci, divaricate nel fare causa comune, della cultura riformista: se ci siete, date un colpo.

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