I lettori/osservatori meno distratti avranno da tempo colto l'incongruenza rappresentata dall'inversione di intensità nell'attenzione dedicata ai temi “strutturati” rispetto ad una gerarchia di priorità scandita dagli standards mediatici.
In questo modo “la festa del lavoro” del 1° maggio, una volta assolto il pedaggio del ripristinato “concertone” (la panacea con cui maldestramente si accontenta un'insiemistica di aspettative “usa e getta”, è stata archiviata in poco più di 24 ore.
Ricorrenze siffatte (per di più questa di cui stiamo trattando è strettamente correlata al perno principe dei principi costituzionali) approdano, nella migliore delle ipotesi, ad un giorno non lavorato. E non, come dovrebbe essere, di celebrazione dei contenuti di una ricorrenza fondamentale, come abbiamo appena premesso, nell'asset etico della Repubblica.
Restano sul tappeto i cascami dialettici di questioni che non vengono affrontate a viso aperto e con la determinazione che richiederebbero, ma che, invece, vengono shakerate nella banalità quotidiana.
Ad esempio, il ministro Orlando, a fronte non si sa se più dell'inettitudine ovvero della confusione mentale, tende a giustificare la neghittosità dell'azione governativa alla luce “dall'incertezza preelettorale”. Come se il rinnovo di qualche sia pur importante Comune fosse esimente od attenuante per una gestione “a minimo sindacale” delle politiche del lavoro. Oggi più che mai deragliate sul terreno di una percezione inadeguata rispetto al cul de sac in cui è confluita, da tempo, l'indeterminatezza dell'approccio al cambio di fase nella più vasta questione della sostenibilità del modello macroeconomico. In evidente criticità.
Recentemente l'editorialista del Corsera Buccini ha avuto modo di osservare: “le prime risposte che le democrazie liberali devono preparare è, dunque, economica nel breve e nel medio termine. Con un patto sociale che garantisca sostegno a chi non ha e non conta nulla, traducendo le consapevolezze in programmi che smontino le spinte populistiche e riprendano le vecchie culture riformiste.”
Già anche in questo confronto nodale riemerge la mai ricomposta contrapposizione di visioni e di opzioni strategiche tra massimalismo e riformismo. Tutt'al più si arriva all'azzardata formulazione del riformismo radical. Un ossimoro? No! Ci sta. Perché il termine è antitetico al massimalismo (dei risultati del progetto) non alle dinamiche del perseguimento (per il quale il termine più adatto è il gradualismo). Sinistra riformista è il termine speculare ad un progetto politico di riequilibrio e di modernizzazione dei rapporti sociali, che non è rinunciatario dei risultati.
Mentre è del tutto evidente che sul coté contrapposto si colloca il tandem marciano uniti Orlando/Landini.
Il ministro del Lavoro manifestamente alle prese con una difficoltà di sdoppiamento di personalità e di consapevolezza del ruolo.
Ed il segretario della CGIL che aveva recentemente postulato una nuova patrimoniale dell'1% - pari a 100 mld – da destinare ad una ulteriore dilatazione della spesa “sociale”, anziché, come si dovrebbe (se proprio fosse necessaria questa opzione), alla diminuzione di un debito statale giunto al 160% del PIL e un perentorio passo verso il salario minimo. Che, in assenza di una sostenibile detassazione, verrebbe a gravare sugli equilibri assai fragili su cui poggia la competitività del settore manifatturiero.
Un altro protagonista della vita politica e di tanto in tanto opinionista su grandi temi, il Sindaco di Milano Sala, ha avuto modo nei giorni scorsi di considerare: “Penso sia ora di passare all'idea di collaborazione, piuttosto che di competizione.
La prospettiva va ribaltata: la qualità della produttività vince il confronto con la quantità. Non parlo di cose irrealizzabili. Nella Spagna del premier Sanchez tutte le parti sociali hanno sottoscritto una riforma del lavoro con cui si limita radicalmente il ricorso ai contratti a tempo determinato e si ripristina la contrattazione collettiva, senza impedire la flessibilità. Guardare al lavoro in termini realistici non ideologico”.
Indubitabilmente siamo di fronte ad uno scenario gravido di criticità. Su cui, come abbiamo già detto, pesano l'inconsapevolezza dell'esaurita tenuta del combinato tra “globalizzazione” drogata dalle ricette della turbo finanziarizzazione dell'economia e gli “inciampi” scaraventati dai due fenomeni che sono stati la pandemia e la guerra in Ucraina.
Il combinato di titubanze e di attriti sulla strada di un superiore interesse di tenuta sistemica dovranno cedere alla cognizione che suggerisce la totale assenza di ricette che non siano la presa d'atto di una risposta immediata alle sofferenze contingenti ed una risposta strategica, capace di rimettere in moto le teorie della programmazione economica e la concertazione della politica dei redditi.
Indubitabilmente il sistema offre molti motivi di malcontento: il divario tra la crescita esponenziale dei prezzi al consumo e le dinamiche molto più lente del recupero salariale.
E questa emergenza va trattata con la priorità che merita e in una prospettiva capace di separare dai generalizzati impulsi populistici (ben presenti nelle forze politiche come nel mondo sindacale) l'enucleazione di provvedimenti destinati a ripercuotere immediate conseguenze.
Che non possono non costituire l premessa per l'avvio di una nuova cultura per le politiche del lavoro. In cui trovino priorità la qualificazione permanente (che costituisce l'elemento cardine di valorizzazione tra domanda ed offerta del lavoro) e (lo diciamo in un momento dell'anno in cui le morti hanno valicato il ragguardevole numero di 200) la tutela dei lavoratori.
Per tutto ciò sono indispensabili alcune precondizioni. La prima delle quali è costituita da una rivoluzione culturale in capo ai titolari della rappresentanza politica e sindacale del dante causa.
Mentre è manifesta l'inadeguatezza sia del “campo politico” sia del tutor sindacale (in cui si è persa ogni traccia di profilo riformista).
Non vorremmo essere fraintesi. Ma il punto di incontro tra le parti in causa va trovato tra una sponda sociale capace di fornire agganci praticabili sul terreno dell'immediato recupero del gap negativo nella distribuzione dei redditi (vorrà dir pur qualcosa il dato secondo cui Tre su 4 italiani riducono i consumi) e dell'introduzione tendenziale di elementi di coinvolgimento dei lavoratori nelle politiche strategiche. Ed una sponda imprenditoriale che sappia cogliere i profili innovativi che emergono anche nelle percezioni del campo liberal/liberistico. Non proprio musica per i nostri orecchi. Ma riaffermazione di un principio che non abbiamo, nel nostro percorso di socialisti riformisti e laburisti, mai perso di vista e che attiene alla rivendicazione di una trasversalità che affondi nella coesione comunitaria. Requisito non di poco conto in un sistema, come quello occidentale, diventato, per tutte le ragioni qui considerate, meno scontato del passato.
Il premier giapponese (leader di partito conservatore, si ripete conservatore) Fumio Kishida non lascia molto spazio a difficoltà interpretative circa la consapevolezza, ben presente anche nell'establishment internazionale, di una discontinuità nei cardini del modello ultraliberista: “ Il “nuovo capitalismo” che ho lanciato evita di lasciare tutto in balia del mercato e della competizione, oltre a realizzare, in un'ottica in cui pubblico e privato lavorino di pari passo per correggere fallimenti del mercato e diseconomie esterne, mira ad un'economia ed a una società sostenibili”.
Le strade della concertazione dovrebbero essere infinite. Tra le molte possibili segnaliamo quella dell'appena rieletto Presidente Macron: le aziende che pagano dividendi agli azionisti potranno versare ai dipendenti sino a 6000 euro di premio esentasse. Alla quale aggiungiamo l'esortazione al mondo sindacale al ritorno alla contrattazione (se possibile anche aziendale), che riservi ampi margini anche a forme di welfare aziendale.
Non sarà, questa, la strada maestra per giungere alla “società socialista” (come si diceva un tempo). Ma indubbiamente il modello compartecipativo (la Mitbestimmung tedesca, ad esempio) ha rappresentato il punto più elevato del combinato tra percorsi gradualistici, riflessi in una più equa distribuzione delle risorse prodotte e in termini di stabilizzazione del posto di lavoro, e visioni strategiche di associazione “dei lavori” alla configurazione delle politiche economiche.
Concludiamo con un'esternazione che ci iscriverà d'ufficio alla categoria dei rinunciatari, collaborazionisti del sistema.
Gli interessi economici, importantissimi, non sono tutto. Nel prontuario della rappresentanza dei lavoratori dovrebbe essere fatto almeno un cenno all'esigenza di porre su un piano nuovo l'accesso alla ricerca e alla conoscenza.
Quanto appena considerato è premessa per la pubblicazione dei contributi del forum dei nostri lettori, della locandina della mostra fotografica in corso a Casalmaggiore titolata “sebben che siamo donne” e della recensione di un saggio di Marco Patucchi (“Morire di lavoro”), che assume, a petto di quanto premesso in materia di dinamiche infortunistiche, l'assoluto valore di una denuncia che non lascia scampo.
Ciò scrivevamo tre anni fa alla vigilia della ricorrenza. E ciò (al netto della doverosa precisazione che “il Ministro Orlando”, avendo scelto altre location in cui far danno, non ha più ruoli ministeriali) riproponiamo, come riflessione con cui apriamo l'editoriale dedicato, riproponiamo paro paro.
Premessa agghiacciante che dice fedelmente dello stato dell'arte dello sforzo di approfondimento di una tematica che, come dimostra il confronto in atto universalmente sugli incerti equilibri socioeconomici planetari, dovrebbe invece essere al centro delle intelligenze e delle sollecitudini di tutti. Specie dei sentiments che albergano nella costituency del lavoro.
I contesti ci costringono, se non altro in dipendenza delle riflessioni sviluppate qualche giorno fa in materia di Liberazione, a prendere atto che siamo in presenza di un concentrato di sentiments tarati contro tutto quanto sono stati e continuano ad essere i radicalismi con cui sono e continuano ad essere manifestate le culture civili evolutive. Per le quali non valgono né ostracizzazioni né lotte frontali. Ma dopo quasi mezzo secolo bisognerebbe pur fare un bilancio dei segmenti fecondi e sostenibili per la metabolizzazione nel condensato vivere civile e degli eccessi che, incuranti delle ricadute teoriche e soprattutto pratiche, non si rendono conto dell'incidenza nelle percezioni e nelle consapevolezze dei portatori "di vita comune". Indotti, per effetto sia del rifiuto della considerazione di reietti di potenziali inclusioni nel perimetro della cultura radical (quando ci vuole ci vuole: chic) sia di destinatari delle concrete conseguenze del trickledown discendente dall'applicazione sul terreno concreto, hanno dimostrato, forse al di là delle intenzioni, di diventare beef per l'ormai diffusa ondata in chiave (detto genericamente) conservatrice, forse reazionaria. Che è premessa e innesco del cambio di fase in chiave manifestamente ostile ad un ciclo che è stato alla base del processo evolutivo contrassegnato dal pensiero critico e dalla cultura liberaldemocratica. La cui espressione radicale e assolutistica (incardinata dalla pretesa a lungo raggio di una minoranza di imporre visioni e impatti concreti di vita) ha alienato il sostegno di vaste aliquote di una costituency (popolare) teoricamente appartenente al fronte liberaldemocratico e riformista. Forse siamo in presenza, nella più ottimistica delle interpretazione, di una patente eterogenesi dei fini. Insomma, messi alle strette dalle pretese ideologistiche e omologatrici della cultura woke su materie teoricamente "laterali" (come le politiche di genere, di diversità, di inclusione, di green change) i segmenti civili e sociali "marginali" in teoria, si ripete, alla fattispecie della variante popolare del modello liberaldemocratico si fanno irregimentare nell'ondata populista che pur incorporando pulsioni reazionarie e conservatrici, riesce a calamitare la diffusa rabbia popolare
Una slavina di marginalizzazione, precarietà, diseguaglianza socioeconomica, con forti ricadute su standards basici di appartenenza civile. E, pensare che fino ai primordi del "villaggio globale" (alias, globalizzazione, che avrebbe asfaltato il mezzo secolo dal secondo dopoguerra in poi), fummo in presenza di un ciclo, inteso dal punto di vista della cultura socioeconomica e delle prerogative civili, individuali e collettive, fortemente connotato (sia pure in presenza di dinamiche frenanti di tipo conservatore quando non addirittura restauratore e reazionario, contrappuntate da acuti massimalistici) da tratti distintivi correlati al modello lib lab (di liberaldemocrazia progressista diffusa ed applicata e di laburismo evoluto fino ai limiti della "compartecipazione" ). Che significava prerogative ma anche corresponsabilità nella programmazione dello sviluppo e delle scelte strategiche e "doveri". L'abitudine ad un ciclo virtuoso ci attenuò la percezione di questo quasi evo "socialista". Insomma, "abituati bene" ( si fa per dire) la "sinistra" genericamente intesa non si accorse dell'arrivo dell'andata (paradossalmente agevolata da una interessata lettura della caduta "del muro" che, invece, avrebbe dovuto fare da disinnesco per "le primavere") dell'ondata restauratrice. In cui, per riferirci al decennio dell'avvio della deglobalizzazione, la rottamazione dei cardini preesistenti di stabilità avrebbe avuto un ruolo determinante.
I lettori percepiranno giustificatamente il profilo di mestizia cui abbiamo ispirato questa consapevole esternazione. Che ci induce a concludere con un inequivocabile: Morto il futuro, non resta che il passato. Resta un passato da rivisitare per trarne elementi di consapevolezze e di direzione di marcia per uno sforzo di resipiscenza e di resilienza dal baratro in cui è precipitato tutto l'aggregato della testimonianza laburista.
Per mezzo secolo (anche se, usando una locuzione cinematografica, non avevamo arrivare il treno) abbiamo vissuto concretamente un modello socialdemocratico, che solo le presunzioni ideologiche non ci fecero percepire. Lavoro se non per tutti per molti, trattamenti salariali se non generosi almeno adeguati ad una vita dignitosa, una forte tutela sindacale, un ruolo diffuso nelle fabbriche, un modello previdenziale e socio assistenziale avanzato, un sistema di istruzione accessibile. Cosa è successo?
Focus lavoro
Pubblichiamo, come importante contributo all'approfondimento, questa segnalazione inviata da Virginio Venturelli:
Il salario minimo. Le proposte del movimento. Adesso!
Sentiti i richiami del Presidente Mattarella, alla assemblea della Confindustria del Lazio, volti alla necessità di dare una risposta alla questione dei “salari inadeguati” vigenti legalmente nel nostro Paese, trovo opportuno far conoscere, al riguardo, le analisi e le proposte del movimento Adesso!
Premesso che:
- 1,2 milioni di lavoratrici e lavoratori sono pagati meno della soglia di povertà e 8,5 milioni di italiani sono a rischio indigenza o esclusione sociale,
- i salari italiani sono tra i più bassi d'Europa, insieme al tasso di occupazione femminile,
- in Italia esistono oltre 1.000 contratti collettivi, molte dei quali penalizzano apertamente lavoratori e lavoratrici aventi stessi inquadramenti, stessa anzianità… ma retribuzioni diverse, permessi dimezzati, tutele sparite.
Senza altri tatticismi o reticenze, occorre puntare alla abolizione dei contratti ingiusti, attraverso la piena applicazione di quanto sancito dalla nostra Costituzione agli articoli 36 e 39.
Art 36
Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a se´ e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.
La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.
Art 39
L'organizzazione sindacale e` libera.
Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge.
È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica.
I sindacati registrati hanno personalità giuridica.
Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il
Contratto si riferisce.
Visto che sulla definizione del salario minimo legale, non si riescono a trovare delle intese maggioritarie in parlamento, la proposta del “Salario Minimo Costituzionale” avanzata dal movimento Adesso! Non decolla, anche perché resistono diverse inadempienze da parte dei soggetti indicati negli articoli citati.
A fronte di tale immobilismo, perché gli stipendi degli italiani possano tendere ai livelli europei, servono misure che salvaguardino almeno gli aumenti settoriali o aziendali, come la detassazione degli aumenti derivanti dalle contrattazioni territoriali.
L'Italia è un Paese attraversato da profonde diversità. Gli strumenti nazionali, come i contratti collettivi, definiscono stipendi e diritti giustamente uguali per tutti.
Ma servono anche strumenti sartoriali per applicare davvero i contratti nazionali sui territori: stipendi minimi adeguati alle soglie di povertà più alte nelle grandi metropoli, più welfare e servizi nelle aree con meno infrastrutture.
Vuoi dare il tuo contributo per cambiare le cose?
Partecipa alla fase costituente Adesso! Compilando il form, sul sito: adesso.news
1- L'adesione alla fase costituente è gratuita, insieme decideremo le regole del movimento e poi, se vorrai, potrai iscriverti.
2- Potrai partecipare alle riunioni online per definire le regole, agli approfondimenti tematici e agli incontri sul territorio.
3- La conclusione della fase costituente è prevista per novembre/dicembre 2025.
Garofani in festa
Di Mauro Del Bue
I socialisti si mettevano all'occhiello il garofano e facevano festa in Italia già il 1° maggio del 1890. Il loro inno l'aveva scritto Filippo Turati, la musica era di Amintore Galli, nel 1886. Era una festa non ancora conquistata e autorizzata. Ed era stata promossa per raggiungere l'obiettivo delle otto ore di lavoro che negli Stati uniti, limitatamente allo stato dell'Illinois, era stato raggiunto già il 1° maggio 1867. Venti anni dopo, il 1° maggio del 1887, i lavoratori americani degli altri stati scesero in sciopero per rivendicare gli stessi diritti di quelli dell'Illinois, ma a Chicago la polizia sparò lasciando sul selciato diverse vittime. Il giorno prima durante un'agitazione in un'azienda erano stati uccisi due operai. Quattro giorni dopo altro sangue negli scontri tra polizia e anarchici. Feroce reazione delle autorità. Vennero accusati senza alcuna colpa otto anarchici e quattro di loro furono impiccati nella pubblica piazza. Per ricordarli la seconda internazionale, a Parigi, nel 1889, dopo la fine della prima e la divisione tra socialisti e anarchici, proclamò il 1° maggio la festa internazionale del lavoro. In Italia la festa iniziò a essere celebrata nel 1890 come pressione per le otto ore lavorative, ma anche contro lo sfruttamento dei bambini e delle donne nel lavoro manuale, che venne abolito grazie alla legge Carcano, ispirata da Anna Kuliscioff, nel 1905. Il primo maggio venne abolito dal regime fascista nel 1923 e sostituito dal 21 aprile, natale di Roma, ma riprese ad essere celebrato nel 1946 dopo la Liberazione. L'Italia festeggia il 1° maggio di questo 2025 con dati sul lavoro contraddittori. Innanzitutto balza agli occhi l'aumento di lavoratori che hanno perso la vita. I numeri provvisori dell'Inail che si riferiscono ai primi due mesi dell'anno in corso parlano di 138 denunce di infortunio mortale, il 16% in più dello stesso periodo del 2024. L'anno scorso i morti sul lavoro erano stati 1090, in aumento del 4,7 rispetto all'anno precedente, con una media di tre al giorno. Si potrebbe ritenere che l'aumento degli incidenti mortali sia proporzionato all'aumento dell'occupazione. E invece si é passati dallo 0,36 ogni 100mila occupati del febbraio 2023 allo 0,4 del febbraio del 2025. Notizie relativamente migliori sul versante dell'occupazione. In un contesto di basso aumento della crescita economica l'occupazione italiana é cresciuta nel 2024 dell'1,5%, toccando nell'anno i 24 milioni. È dunque aumentata di 352mila unità. È stata trainata dagli over cinquanta e dalla crescita dei lavoratori a tempo indeterminato, in aumento del 3,3%, rispetto all'anno precedente. Si contrae la platea del lavoro temporaneo che però interessa ancora 2milioni 750mila lavoratori soprattutto giovani. Lo rileva il rapporto annuale del Cnel che sottolinea anche l'aumento dell'occupazione femminile, che però non supera la quota dei 10 milioni. L'occupazione giovanile e femminile é ancora la più bassa d'Europa. In generale per quanto abbia raggiunto il 62,2 il tasso di occupazione italiano si colloca all'ultimo posto in Europa, inferiore di oltre 15 punti rispetto a quello della Germania, di 6,8 punti rispetto a quello della Francia, di 3,9 rispetto a quello della Spagna. Rispetto alla media europea il tasso di occupazione italiano risulta inferiore di 8,6 punti e di 12,9 punti per quanto riguarda l'occupazione femminile. Ovviamente tutti i dati italiani vanno messi in relazione a un'are di lavoro nero e di alta evasione fiscale calcolata in quasi 200 miliardi, che costituisce un unicum europeo. Più controlli sul lavoro, meno subappalti, una legislazione e norme più rigorose, pene pesanti per le aziende che sgarrano sono gli strumenti oer combattere l'inaccettabile dramma delle morti sul lavoro, una lotta serrata al lavoro nero (incrementato dal reddito di cittadinanza grillino) e all'evasione fiscale, unita a norme che premino il lavoro femminile e l'accesso al primo lavoro sono gli obiettivi da lanciare per attenuare il forte dap che separa ancora l'Italia dagli altri paesi europei. Infiliamoci ancora il garofano all'occhiello per questa festa socialista perché la lotta per la giustizia sociale é più che mai necessaria.