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La sinistra e la questione socialista /50

  17/08/2025

Di Redazione

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Riprende la rubrica dedicata all'approfondimento e al confronto sullo stato della sinistra e, specificatamente, sulla questione socialista.

Ci avvalliamo, oltre che del consueto, apprezzato apporto di Virginio Venturelli e, nell'occasione, della trasposizione di due importanti contributi estratti dalla consorella testata riformista La Giustizia. Da cui emerge un dato fin qui inedito: il riallestimento nello scenario politico nazionale della presenza del movimento socialdemocratico, manifestamente sinergizzato con l'Associazione Liberalsocialista. Ci è apparso molto utile, ai fini dell'ampliamento delle fonti di conoscenza e di confronto, replicare qui due importanti articoli, a firma Preti e Amendolia.

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La strada per uscire dalla irrilevanza politica.

Alla luce dei  generalizzati richiami alle  affermazioni di Carlo Rosselli, che si ascoltano nelle discussioni interne delle variegate componenti di ispirazione socialista,  nessun significativo atto  c'è  ancora in campo,  teso  alla  creazione di  un progetto unitario  di nuovo stampo, ove  il socialismo non si decreta dall'alto, ma si costruisce tutti i giorni dal basso, nelle coscienze, nei sindacati, nella cultura. Ove distintivi siano le idee chiare ed i propri esponenti, dediti alle soluzioni dei problemi concreti del Paese e dei cittadini.

Senza più appiccicature organizzative di partiti e partitelli ormai sepolti, ma con una Direzione nuova dai piedi al capo, sintesi federativa delle forze che si battono per la causa della libertà e del lavoro.

Commemorare la storia ed il passato dei protagonisti del socialismo italiano, senza rinnovarne e rilanciarne i loro insegnamenti,  oggi stimola prevalentemente delle  iscrizioni  nostalgiche, del  tutto insufficienti per rimotivare  il riscatto  del movimento socialista e  la sua funzione nella politica nazionale.

VIRGINIO VENTURELLI

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RASSEGNA DELLA STAMPA CORRELATA

È rinato anche il PSDI

L'ora del coraggio e del dialogo per i riformisti italiani

di Paolo Preti, Segretario Nazionale del PSDI 

Vincere, sì, ma per fare cosa? Sembra una domanda retorica, perché viviamo da anni in questo bipolarismo muscolare che fa prevalere le ragioni della contrapposizione a quelle dei problemi che affliggono il nostro Paese.

Mentre la politica italiana si avvita intorno al “dibattito del giorno”, scrutando e sezionando le mosse di Vannacci e i posizionamenti di Renzi, i diktat di Conte e il caro-spiagge, i problemi strutturali del nostro Paese – ben noti, dal debito pubblico elevato alla produttività stagnante – rischiano di aggravarsi, a fronte di questioni che non possono essere più rinviate:

Come affrontare la crisi della manifattura italiana, alimentata dall'aumento dei costi dell'energia e da un arretramento nell'investimento tecnologico? Si può iniziare a discutere di incentivazione all'innovazione tecnologica e di un riposizionamento del Green Deal?

Come si intende affrontare la crisi dei salari, più bassi della media europea e con un tasso di crescita lentissimo? Si può dire che non si risolvono i problemi con i “bonus”, tanto amati dai governi succedutisi negli ultimi anni, ma con un nuovo patto tra imprese e lavoratori che ponga al centro i temi della produttività, della conciliazione lavoro-famiglia, della capacità di investire sulla crescita professionale dei lavoratori?

In un'Europa attraversata da estremismi di ogni colore, capaci di veicolare il completo stravolgimento della realtà, possiamo dire che non è possibile tollerare cedimenti sul fronte del riconoscimento della Russia come aggressore e dell'Ucraina come vittima di questa aggressione? La difesa della libertà, della democrazia e dell'autodeterminazione dei popoli, non passa anche da una difesa senza tentennamenti del popolo ucraino in guerra?

E' lecito sostenere con forza che la promozione dei diritti civili e dei diritti umani passa anche dal non mettere la testa sotto la sabbia di fronte alla situazione di degrado dovuta al sovraffollamento carcerario?

Dalla fine del dopoguerra fino alla crisi dei primi anni Novanta, ci sono stati uomini e donne nella politica italiana che non sono mai stati maggioritari, ma che hanno avuto la grande capacità di incidere in modo sostanziale sulla crescita civile ed economica dell'Italia: sono i Socialdemocratici, i Socialisti Liberali, i Repubblicani, i Liberaldemocratici. Sono i riformisti, che hanno spesso compensato i numeri con il coraggio, e gli esempi nella storia potrebbero essere tanti. Ora siamo forse meno, ma il coraggio è sempre quello. Per questo è necessario ora più che mai che chi in questi lunghi anni ha custodito l'eredità di queste grandi culture politiche provi a dialogare, mettendo al centro di una piattaforma comune quei problemi dell'Italia di fronte ai quali non siamo mai arretrati.

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Vicky Amendolia, segreteria Socialdemocrazia

La politica ha abdicato alla sua funzione più alta: educare, elevare, emancipare, e soprattutto fungere da ponte fra cittadini e Stato, ascoltando e traducendo i bisogni reali in scelte concrete. Un tempo questo legame era saldo (quando il sistema elettorale era proporzionale e i partiti avevano sedi attive disseminate sul territorio): oggi è un filo sfilacciato, spesso reciso, sostituito da sondaggi lampo, tweet acchiappa-like e dirette social in cui il consenso si misura a colpi di emoticon.

Nel nulla cosmico dell'attuale pensiero politico la mente assetata di valori etici, verità, intelligenza e sapienza, vola in alto ricordando le idee di grandi uomini come, per esempio, Gobetti, Matteotti e Gramsci che oggi non passerebbero neppure le primarie: troppo liberi, troppo colti, troppo scomodi. In un Paese che scambia un post virale per un programma di Governo, la verità è merce di contrabbando (e smontata, spacciandola con un comodo e lapidario fake news). Il male del secolo non si misura nello spread o nei bollettini di guerra: è la desertificazione morale e culturale della politica.

Un'arte che fu alta è ora degradata a talk show permanente. Un “mestiere” che si imparava nelle sezioni di quartiere è diventato appalto per spin doctor. Un linguaggio che era visione e progetto si è ridotto a slogan da tre parole, col timbro di garanzia del politically correct più ipocrita e castrante: viviamo in una stagione di semplificazione brutale, dove l'ignoranza è merce politica e l'indifferenza è diventata virtù. I partiti sono comitati elettorali privi di cultura e di contatto con la società reale; i leader sono algoritmi travestiti da uomini; la parola “socialismo” è quasi impronunciabile, se non per denigrarla e il pensiero critico è sostituito dalla reazione istintiva.

I partiti oggi somigliano a centri commerciali: corsia “progressista” con confezioni patinate ma vuote, scaffale “patriottico” pieno di bandiere made in China, e in mezzo un corridoio deserto chiamato “centro”. Nella migliore delle ipotesi vendono illusioni; nella peggiore vendono se stessi.

In questo mercato dell'effimero, la scuola — il primo laboratorio civico — è stata ridotta a un hub di competenze “spendibili”, sacrificando la formazione del pensiero critico e l'educazione alla cittadinanza: il linguaggio ridotto all'osso, le materie ritenute “inutili”- ma utili per formare l'individuo- eliminate. Come ammoniva Émile Durkheim, senza un'istruzione capace di forgiare coscienze libere e responsabili, la democrazia si svuota dall'interno. Pierre Bourdieu avrebbe parlato di “riproduzione sociale del conformismo”: si insegnano nozioni, ma si disabitua a pensare. John Dewey ricordava che la scuola è “la forma più efficace di democrazia”, ma solo se educa alla partecipazione consapevole, non se addestra al mercato del lavoro come fosse un'azienda di selezione del personale.

In questa atmosfera viziata, ricordare, dunque, Piero Gobetti, Giacomo Matteotti e Antonio Gramsci non è un esercizio da anniversario: è un atto di sopravvivenza intellettuale. Gobetti vedeva nel liberalismo un'educazione alla libertà, non una vetrina per il capitale. Matteotti affrontava il potere con la precisione di un chirurgo, armato di documenti e prove. Gramsci aveva capito che il potere si perpetua attraverso la cultura e che senza scuole libere e stampa pluralista la democrazia è solo un guscio: tutti e tre si muovono sul terreno della verità scomoda, dell'antipatia meritata, della coerenza pagata cara. Nessuno di loro si è mai nascosto dietro il compromesso. Nessuno ha mai cercato scorciatoie. Tutti hanno parlato al popolo senza lusingarlo, senza blandirlo, ma sfidandolo a diventare migliore. E tutti, per questo, sono stati perseguitati, isolati, uccisi o lasciati morire lentamente.

Questi tre uomini, quindi, parlavano di politica come etica della verità, non come mestiere del consenso. Oggi, in un sistema che premia il trasformismo come virtù, sarebbero bollati come “non in linea”. Nel loro pensiero ritroviamo la condanna senza appello di ogni forma di populismo, di paternalismo autoritario, di compromesso morale (tutti requisiti oggi conditio sine qua non del politico italico- e non solo): ritroviamo l'idea che la democrazia non è semplicemente votare, ma educarsi alla libertà, alla responsabilità, alla partecipazione; ritroviamo l'esigenza di un pensiero lungo, di una politica che non cerchi il consenso immediato ma costruisca nel tempo una nuova cittadinanza.

La vera importante battaglia, dunque, è quella da ingaggiare per porre fine a questa stagione di semplificazione brutale, dove l'ignoranza è merce politica e l'indifferenza è diventata virtù, dove i partiti sono comitati elettorali privi di cultura e i leader sono algoritmi travestiti da uomini, dove il pensiero critico è sostituito dalla reazione istintiva e la parola “socialismo” è quasi impronunciabile, se non per denigrarla. Il vero male del secolo non è il populismo in sé, né l'estremismo, né la mediocrità individuale: è la sostituzione della politica con la sua caricatura televisiva, l'accettazione che un meme valga più di un'idea e che la cultura sia un lusso da tagliare nei bilanci.

È per questo che oggi abbiamo il dovere di ricostruire una federazione politica nuova, una “terza forza” che occupi lo spazio vuoto tra i due poli privi di valori, fondata non sulla somma di sigle (molte delle quali orticelli dove, spesso, purtroppo, il leader di turno pare geloso del suo piccolo “avere”), ma sulla convergenza di tradizioni culturali: socialista, democratica, repubblicana, liberale, riformista. Una rete di pensieri e di azioni che riparta da quei valori comuni che univano Salvemini, Gobetti, Matteotti e Gramsci: verità, giustizia sociale, cultura, responsabilità individuale, anticlericalismo laico e spirito pubblico, perché la cura non può essere un maquillage del sistema esistente. Serve questa terza forza — socialista, socialdemocratica, repubblicana, liberale e riformista — capace di spezzare il duopolio sterile tra un centrodestra che si nutre di slogan e un centrosinistra che ha perso l'alfabeto dei suoi ideali, cioè una forza federativa (reale e non finalizzata solo a fattori elettoralistici) che mantenga le identità dei partiti che la compongono, ma che condivida progettualità e valori, ridando alla politica la sua missione di guida morale e ponte civico.

Altrimenti, continueremo ad affidarci a comici senza ironia, economisti senza conti, avvocati senza codici e statisti senza Stato e, come ammoniva Gobetti, non potremo dare la colpa a loro: sarà ancora, miseramente, “l'autobiografia della nazione”.

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CHIOSA:

life  (or mission)  expectancy

Una postura, questa, a valenza binaria, che da un trentennio riguarda, appunto, le aspettative di quel che resta del socialismo italiano (e, come si avrà occasione di percepire, quello europeo) da intendersi sia come think tank di elaborazione teorica sia come aggregato di testimonianza pratica nella vita pubblica e nelle istituzioni rappresentative. Ovviamente fermo restando che, pur nel quadro di un'innegabile diffusa criticità  di carattere generale per la “famiglia socialista europea” (cui ha non poco contribuito una troppo generosa accessibilità a cani e porci interessati solo alla acquisizione di un rating suscettibile di sdoganare ruoli di potere, alcune  realtà nazionali, come quella italiana caratterizzata da un senior partner, il PSI (che si ricorderà fece da mallevadore ad un partito candidato che in Italia continua ad antipatizzare per l'impianto teorico socialdemocratico e si identifica con una “ditta” di fantasia) ormai ridotto a dimensioni millesimali (in aggiunta ad una credibilità suscettibile di creare imbarazzo)

Sul secondo punto, abbiamo, come da tempo (per non dire da sempre, almeno in connessione con il cambio di fase di metà anni 90)sostenuto e  andiamo sostenendo che l'obsolescenza della nostra “ditta” non ha alcuna possibilità di resilienza. Per i motivi di carattere generale che andremo ad analizzare nel prosieguo,  ma che non possono in alcun modo prescindere dalla presa d'atto che l'impianto politico generale è profondamente mutato e che la benché minima possibilità di recuperare il vecchio asset con rammendi (molto simili ai proverbiali tacconi) non sortirà conseguenze apprezzabili.

Diciamo questo, ovviamente dopo aver ben scandito ed assolto l'obbligo, almeno dal punto di visto della sostenibilità del pensiero razionale,  di confermare il pieno convincimento che qualsiasi rifunzionalizzazione del modello liberaldemocratico (in particolare, del filone lib-lab) non possa prescindere, se non altro ai fini dell'ineliminabile centralità del perno atto a garantire il recupero di un imprescindibile equilibrio sociale (condizione per la tenuta del modello), dall'apporto, anzi di una forte influenza di una teoria riformista-progressista. Capace di ispirarsi alla cultura ed al pensiero, lato sensu, del socialismo democratico e laburista.

Ipotesi percorribile a condizione che i sostenitori di un rilancio che, prima di essere una sfida riparatrice di troppe disattenzioni, omissioni, compiacenze al trantran dell'esercizio del potere (non sempre correlato alla storia ed all'idealismo), è un test di fattualità, vale a dire di accertamento di quanto siano mutati gli scenari su cui si vorrebbe tentare un reimpianto.

Si comprenderà facilmente che da tale severa condizione resta inesorabilmente escluso qualsiasi sia pur minimale compiacimento a trarre ulteriori quote di utilità marginale emunte dal tentativo (incardinato dalle primissime fasi della seconda repubblica di inventare e simulare in automatico ruoli, più o meno reali e più o meno dignitosi, di  permanenza sul “mercato”. In gran parte dedotti dalla presunzione di proiettare il passato (nome, simbolo, oligarchie interne e pacchetto di voti) nei nuovi scenari. Nella speranza che il “brand” (nome, simbolo, bandiera, arbitraria usurpazione dell'eredità storica) inneschi un sia pure marginale indotto (che, però, nelle logiche “maggioritario” del “poco maledetto ma buono ad incrementare il risultato finale). Nell'interesse delle logiche del prevalent partner come del pezzente disposto a lucrare posizioni di mandato, ininfluenti negli equilibri, ma pur sempre in cima alle aspettative delle ristrette nomenclature, sedicenti eredi dei grandi movimenti del passato.

Sul punto ci eravamo già chiaramente pronunciati nel passato e ci pare quasi ozioso ribadire che non si caverà un ragno dal buco se il perimetro delle testimonianze idealistiche che si richiamano alla cultura socialdemocratica affiderà la resilienza di un movimento strutturato di teorie politiche e di modello organizzativo al recupero dell'”esistente”. La cui sostenibilità in termini di resilienza è pari a zero o poco più.

Da qualche anno il tentativo di riassemblare idealismi ed energie ha movimentato operazioni più per sottrazione piuttosto che per sommatoria.

Il rilancio di reinstallazione, per restare nel vago della prudenza, resta legato alla capacità e o alla volontà dei propugnatori di questa ipotesi, suscettibile, si ripete, di fornire un assist edificante all'intera rifunzionalizzazione del modello politico, di mettere a punto un'”offerta” strategica capace di vedersi riconosciuto, a livello di mobilitazione delle coscienze civili e delle testimonianze concrete, un adeguato rating, per un'investitura nel ruolo di rappresentanza di un vasto progetto di riforma della società.

Da ciò si evince (o si dovrebbe) che l'intenzione non può essere quella di lucrare marginali strapuntini di spartizione, né quella di apportare “tacconi” al tessuto pieno di mende di tutto quel vasto campo che presume o pretende di rappresentare le teorie che dovrebbero rifarsi (detto un po' frettolosamente) ad un assetto sociale e civile ispirato da equità e giustizia.

Sull'aspetto generale dell'analisi, su cui torneremo (magari fidando sul contributo dei lettori interessati a partecipare al confronto), ci permetteremmo da subito segnalare che l'innesco di tale afflato resipiscente non può non partire (se non si vuole mettere semplicemente una toppa all'evidente marginalizzazione negli attuali scenari) dalla consapevolezza dell'enormità dei cambiamenti intervenuti nell'ultimo trentennio. A principiare da un aspetto ineludibile (per qualsiasi sensibilità di cultura socialista): l'impennata delle diseguaglianze. Che non potrà essere in alcun modo correlata ad un progetto resiliente che non abbia una profondità strategica (anziché, come succede nella “famiglia” europea, essere affidata alle terapie delle “governances” ipnotizzate dalla pratica del giorno per giorno, dal lucro di consensi e dai compromessi suscettibili (quando accade) di catturare appoggi marginali utili ad equilibri di forza, del tutto disgiunti da visioni strategiche di cambiamento.

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