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Tamoil ter. Per progettare il futuro partire dalle consapevolezze del passato

Sono intercorsi più di sei anni dalle conclusioni del “tavolo” istituzioni/Tamoil, perché partissero le operazioni di smantellamento di impianti industriali, non più finalizzati al processo produttivo, inutili e forse pericolosi, quanto meno per effetto di quanto si sarebbe appreso dall’auto-denuncia aziendale

  20/03/2019

A cura della Redazione

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Quell'accordo del 2011, che salvava i diritti dei lavoratori, nulla prevedeva in materia di tutela dell'ambiente e della salute. Per quanto postulasse la partecipazione attiva dell'istituzione locale, tale materia ricadeva prevalentemente nell'orbita delle competenze ministeriali ed, in qualche misura, delle risultanze dell'azione giurisdizionale.

La notizia (che raramente è buona nuova) della chiusura di un'azienda data nel 2011 era invece una buona notizia; specie se corroborata dall'accertamento dell'operatività delle tutele, che avrebbero, com'è poi avvenuto, evitato un bagno di sangue.

 La dismissione degli impianti e l'avvio dello smantellamento fisico dello stabilimento Tamoil di Via Eridano costituiscono primo passo verso la bonifica di un colossale aggregato di impianti pericolosi e di sostanze inquinanti, ma anche, come vedremo, di acquiescenze non certamente virtuose.

Un smantellamento fisico, ma, soprattutto, simbolico. Che offre un assist per affrontare, come desideravo da tempo, un approfondimento più ampio. Su ciò che l'insediamento di trasformazione degli idrocarburi ha rappresentato nello scenario socio-economico locale e nelle influenze politiche e su ciò che la sua soppressione fisica potrebbe comportare in termini di riconversione almeno del suo sito. Dopo la cessazione dell'attività produttiva e dopo la non edificante pagina, tuttora e probabilmente ancora per molto tempo, dell'accertamento dei profili penali, la notizia integra, a partire da un'ineludibile operazione di autocoscienza, un cambio di passo, una sorta di caduta degli dei, inimmaginabile ai tempi in cui l'azienda esercitava un appeal incontenibile. Nei confronti di una città che, pur non lesinando testimonianze ambientalistiche (per lo più élitarie, quando non velleitarie), trovava comodo il flusso delle centinaia di stipendi diretti ed indotti. Nei confronti di un ceto politico-istituzionale, che, dai tempi delle giunte centriste, allevò e coccolò la prospettiva di avere a ridosso del Po una attività petrolifera serie di B (che in Emilia era stata più prodiga). Diciamo che non si badò molto alle precauzioni per la contaminazione ambientale e per la tutela della salute dei cittadini. Si sarebbe continuato così all'infinito, se non si fosse materializzata la crisi planetaria dell'industria di trasformazione. Chi tra gli anni 50 ed 80 avesse sollevato obiezioni, sarebbe stato iscritto d'ufficio nell'elenco dei sabotatori del benessere della città e dei nemici del sindacato (aziendale, in particolare). Ho ancora vivo ricordo delle sedute del Consiglio Comunale (1987) in cui fu discusso e deliberato il parere richiesto dal Ministero dell'Industria per il rinnovo dell'autorizzazione a produrre. Non ne avevo postulata tout court la revoca. Bensì, avevo avanzato ipotesi realistiche di contenimento e di verifica della sostenibilità ambientale (come è facile evincere dall'articolo de L'Eco del Popolo del 1987). Come accettabili condizioni di uno scambio, che avrebbe garantito, innanzitutto, la concessione per un cospicuo periodo. La società concessionaria, così tanto per ribadire il suo tratto identificativo, aveva aperto le danze con la minaccia di chiudere. In tal modo, riducendo a miti consigli coloro che eventualmente avessero avuto intenzioni non esattamente allineate al tradizionale atteggiamento di auto sottomissione. La minaccia era, in primis, rivolta ai lavoratori, usati (e disposti a farsi usare) come scudo umano. Ai sindacati, che, logicamente, erano per funzione obbligati a tutelarne la posizione. Alle forze politiche che, nonostante il dovere di mediazione con una visione più ampia degli interessi comunitari, da sempre erano stati ipnotizzati da questa realtà aziendale. Le cui maestranze rappresentavano une énclave di aristocrazia operaia ed il cui fiato da sempre si faceva sentire sul collo della politica locale. Ero segretario Provinciale del PSI e capo del gruppo socialista in Comune. Circostanza questa che non mi sottrasse all'intervento deciso, diciamo così, del Sindaco dell'epoca e della maggioranza del gruppo consiliare. Che mi imposero di votare senza troppi distinguo ed arzigogoli l'ordine del giorno, proposto secondo canoni bulgari dalla giunta e dalla maggioranza, in rapporto consociativo con le minoranza consiliare.All'interno della quale si distingueva il cinismo del gruppo comunista, fortemente interessato a conciliare le esigenze demagogiche della tutela della salute e gli ammiccamenti con i corpi sociali. Contemporaneamente, in fabbrica prendeva corpo una campagna nei miei confronti, a cura di esponenti del sindacato interno.

La successione di quelle reazioni stava a dimostrare ancora una volta che neanche a metà degli anni ottanta fosse possibile azzardare una testimonianza che volesse coniugare la tutela del posto di lavoro con la garanzia della salute sia del lavoratori aziendali e dei cittadini, nonché la salvaguardia dell'ambiente circostante alla fabbrica.

Conclusa positivamente (per i lavoratori e, soprattutto, per il management della raffineria) la congiuntura del rinnovo della concessione ministeriale, si rinsaldò la coesione della classe dirigente cittadina e del mondo del lavoro, che da quasi mezzo secolo aveva collocato la presenza dell'azienda di raffinazione, al di là dei ritorni economici e sociali, in un alone dogmatico di indiscutibilità e di rassegnata predisposizione ad accettarne tutti gli effetti collaterali.

D'altro lato, tale ineluttabilità era percettibilmente avvertita per effetto sia della costante lobbyng aziendale (che sponsorizzava teatro, mostre e sport) sia dalla circostanza che dipendenti o consulenti dell'azienda ricoprirono sempre funzioni amministrative nelle più importanti istituzioni del territorio.

Tanto per intenderci, degnissime persone; me per essere influencer non era necessario, in questi contesti, andare troppo sopra le righe di una simbolica testimonianza.

A dimostrazione del rapporto consociativo, cominciava alla fine degli anni 80 ed a metà dei 90 un fitto calendario di visite istituzionali in Libia. Le cui finalità erano, dal lato del vertice comunale, di accreditarsi presso l'establishment libico e, dal lato di quest'ultimo, di rafforzare ulteriormente l'influenza del management della società petrolifera su Cremona. E ad un tempo di produrre una sortita simbolica dall'embargo decretato a carico della “quarta sponda mediterranea” per la partecipazione al terrorismo in atto contro l'Occidente.

Le riflessioni di cui sopra potrebbero fornire consapevolezze indispensabili sia per attrezzare i fondamenti dell'azione civile nei confronti delle responsabilità pregresse sia per almeno abbozzare un progetto di smantellamento/decontaminazione e di riconversione dei 750.000 metri di superficie.

Nei precedenti articoli avevamo, nel convinto apprezzamento del lavoro compiuto dall'encomiabile cittadino Gino Ruggeri, dal Comune di Cremona, dal collegio dei legali, esortato ad alzare lo sguardo oltre l'immediata evidenza del danno, per tanti anni sospettato e finalmente accertato in sede giurisdizionale, alle acque sotterranee e superficiali e potenzialmente alla salute dei lavoratori aziendali e dei cittadini soci delle circostanti società del tempo libero.

Per oltre mezzo secolo, la raffineria interrò (con cosa?) lanche, scaricò liquidi in cui l'acqua non era l'unica componente. Ma produsse anche emissioni atmosferiche, risultato del processo petrolchimico, che almeno nelle sostanze più pesanti ricadevano sull'ambiente cittadino.

Si può escludere, a posteriori – vale a dire alla chiusura - che l'incidenza degli alti livelli di tumori (attribuiti, in base alla moda della criminalizzazione, al termo combustore) non abbia qualcosa a che vedere con il petrolchimico cremonese?

Si accettava l'alea che insieme alle centinaia di buste paga ogni fine mese ed a un promettente indotto a beneficio di molti ci potesse essere qualche remoto (anche se imprecisato ma intuibile) inconveniente. È pur vero che tale vaghezza di probabilità di danni e complicazioni era assolutamente accettata da un contesto epocale che aveva fretta di ricostruire, di ripartire, di dare lavoro, sicurezza e prosperità. Come era pur vero che si era in presenza di legislazioni di protezione della salute e dell'ambiente meno che rudimentali. Niente, assolutamente niente, in termini di legislazione sulle emissioni atmosferiche, sulla effusione atmosferica, sullo scarico delle acque superficiali, sulla penetrazione nella falda. Gli strumenti urbanistici ed edilizi non erano permeati, da tale punto di vista, della sensibilità civile e della cultura giuridica che, sia pure non proprio pacificamente, sarebbe venuta. Ma anche in aggiunta a questo fragile contesto ordinamentale c'era, diciamolo pure, l'impulso, se non proprio a lasciar fare, a non “intralciare”.

Da parte di un ceto politico-amministrativo che, di fronte alle emergenze sociali ed economiche, era portato a non lasciarsi scappare l'occasione imperdibile per l'occupazione.

D'altro lato, mancavano, oltre al quadro legislativo e regolamentare, gli strumenti di cui avvalersi per valutare la congruità degli insediamenti alle garanzie per l'ambiente e per la salute dei lavoratori impiegati direttamente e della popolazione in generale. Tanto per dire, il Comune, il cui vertice era primo responsabile sanitario, disponeva esclusivamente dell'Ufficio Igiene, le cui competenze evocavano più che altro reminiscenze tardo ottocentesche. Esisteva il Laboratorio Provinciale di Igiene e Profilassi; le cui competenze, per quanto per alcuni aspetti afferenti all'igiene delle acque, erano escluse da tutto quanto potesse riguardare quelle in superficie e non avevano assolutamente parte nelle emissioni atmosferiche. Cionondimeno, le consapevolezze di questi ritardi ordina mentali misero gli amministratori provinciali (Pigoli, De Andreis, Parlato) nella consapevolezza e nella determinazione a provvedere comunque. In ciò si distinsero gli assessori alla Sanità (una competenza diciamo un po' generica e ispirata a buona volontà) ad anticipare i tempi che sarebbero venuti (le varie leggi di impronta ecologica, gli strumenti regionali, il Presidio di Igiene e Prevenzione, ARPA) e a contrastare nei fatti comportamenti manifestamente dannosi. D'altro lato, andrebbe considerato che il cosiddetto medico di fabbrica della Tamoil (prima Amoco) fu per molti lustri ai vertici dell'Amministratore Provinciale.

L'inversione dell'impianto ordinamentale, tendenzialmente destinato a restringere l'area dei comportamenti irregolari quando non delittuosi e delle propensioni compiacenti, può aver interagito con l'indotto dei profondi cambiamenti intervenuti nel settore della raffinazione e della commercializzazione dei prodotti petroliferi. La stessa localizzazione a ridosso del fiume che, mezzo secolo prima, aveva favorito l'insediamento, deve essere stata ritenuta non più strategica.

È questa somma di valutazioni che potrebbe essere stata alla base della scelta strategica di dismettere l'attività di trasformazione e di mantenere il centro di stoccaggio e di distribuzione commerciale.

Sulle conseguenze di tale opzione e su eventuali programmi di riconversione (che non siano esclusivamente i calcoli aziendali) non si intravede un gran fervore progettuale.

Si parla genericamente di risanamento. Ed ancor più genericamente di ri-valorizzazione in chiave ambientale.

Francamente sembra un po' poco. Specialmente se si considera che siamo alla vigilia del rinnovo del mandato amministrativo. Circostanza che dovrebbe suggerire il varo di un tavolo di monitoraggio delle vicende processuali e del timing dello smantellamento, nonché, della prefigurazione delle linee strategiche di riconversione del sito. In cui si collochi come prevalente l'interesse pubblico.

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