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Giuseppe Rossi (Pino), Camillo Genzini e Mirko Rizzini

Per chi é suonata la campana Abbiamo, nei tempi recenti per ben tre volte ed irrimediabilmente, associato i rintocchi a quei versi del poeta americano John Donne. Quand’anche, un po’ per indole ed un po’ per consapevolezza del graduale esaurimento della nostra vicenda umana, non ci siamo, per il vero, mai estraniati da quel monito

  27/03/2017

A cura della Redazione

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L'Eco Commiati e Ricordi: Giuseppe Rossi (Pino), Camillo Genzini e Mirko Rizzini

Ogni morte d'uomo mi diminuisce,

perché io partecipo all'Umanità.

E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana:

Essa suona per te.

(John Donne)

Per chi è suonata la campana Abbiamo, nei tempi recenti per ben tre volte ed irrimediabilmente, associato i rintocchi a quei versi del poeta americano John Donne. Quand'anche, un po' per indole ed un po' per consapevolezza del graduale esaurimento della nostra vicenda umana, non ci siamo, per il vero, mai estraniati da quel monito.

Per quanto tutti razionalmente consapevoli, nei confronti di quei rintocchi che segnalano l'abbandono dell'esistenza, tendiamo a praticare una sorta di moratoria, di rimozione. Pensarvi, specie quando ci si accomiata da amici e conoscenti, sarebbe forma di saggezza e di consapevolezza. Che dà significato alla vita vissuta ed alla testimonianza di chi ci ha lasciato.

Lo spegnimento di un'esistenza, di qualsiasi esistenza, diminuisce l'Umanità.

Ma il senso di tale diminuzione è ancor più avvertito quando se ne vanno persone che sono state parte attiva della comunità e con cui si sono condivise esperienze e percorsi esistenziali.

Dall'inizio dell'anno ci hanno lasciato, quasi scivolati via dalla vita con discrezione, tre protagonisti della nostra comunità.

Il fatto che Giuseppe Rossi (Pino), Camillo Genzini e Mirko Rizzini avessero raggiunto da tempo il ragguardevole traguardo dei novant'anni (con qualche acciacco, compensato da molta lucidità) non attenua, almeno in chi scrive, il rammarico ed il rimpianto per il venir meno di una risorsa per la comunità. Se non altro come punto di riferimento civile e morale, nonostante da tempo non fossero più operativi.

Chi scrive, si anticipa doverosamente, è a loro debitore, oltre che del riconoscimento del valore della testimonianza dispensata in tanti anni, anche di un particolare ringraziamento.

Le ricerche per la redazione de “Il Socialismo di Patecchio” difficilmente sarebbero approdate all' emersione di molte circostanze inedite, se non ci fosse stata, insieme ad altre, la loro disponibilità.

Devo, in particolare, al dott. Camillo Genzini una serie di spunti su circostanze, inerenti agli sviluppi della vita amministrativa, che, per ragioni di assenza di fonti documentali, difficilmente sarebbero state registrate.

Genzini, per quanto assolutamente non incline ad atteggiamenti distaccati, mi ha sempre ispirato, per ragioni di età e di tratto, un certo riguardo; specie quando, nell'espletamento di ruoli amministrativi, la consapevolezza di misurarmi con un profilo così autorevole mi induceva a prudenza.

Quel che so (andando per sintesi) in materia di navigazione interna, di intermodalità, di questione padana l'ho appreso, oltre che dall'approfondimento a mezzo lettura e consultazione, dai maggiori esperti cremonesi di quella fortunata temperie, contraddistinta da capacità progettuale e da idealismo. Che sono stati, insieme ovviamente ad altri, il sen. Giovanni Lombardi, di cui lo scomparso fu a lungo stretto collaboratore nella Comunità Padana, l'ing. Giuseppe Grossi ed, appunto Camillo Genzini.

Nonostante la sua autorevolezza, fu sempre consapevole del suo ruolo di dirigente super partes. All'interno del quale sappe sempre mantenersi, meritandosi un generale riconoscimento.

Mancherà certamente la sua grande cultura del territorio e dei meccanismi di governo delle istituzioni amministrative; che seppe dimostrare sia alla guida della Camera di Commercio che nei settori collaterali.

Mancherà il suo costante stimolo, soprattutto in un contesto in cui quelle grandi intuizioni sembrano essere quasi completamente emarginate dalle priorità e quelle consapevolezze così autorevolmente testimoniate sembrano declinare nelle priorità della classe dirigente. Già manca, soprattutto, il suo appassionato monito rivolto alla valorizzazione delle enormi potenzialità dell'asta padana.

Ricordo qui, di seguito, il profilo più squisitamente politico di altre due personalità venute a mancare di recente.

Parlo per primo di Giuseppe Rossi (per amici e compagni, semplicemente Pino), il cui distacco inatteso, quasi improvviso ha suscitato quasi incredulità; soprattutto nei cittadini della sua Casalmaggiore, abituati alla sua costante presenza.

Era stato, potremmo dire, in buona efficienza, nonostante l'età avanzata, fino alla primavera scorsa. Poi, l'accentuarsi di acciacchi gli aveva consigliato di affidarsi alla sollecita assistenza della figlia dottoressa Rita, medico a Trento.

Ma, ripetiamo, Pino era stato fino al congresso dell'ANPI, comunale di Casalmaggiore (di cui fu presidente per tantissimi anni) e provinciale (del cui Direttivo fu membro per lungo tempo) in pieno vigore, almeno dal punto di vista intellettuale.

Senza mai minimamente indulgere ad un reducismo, che per molti era stata la cifra per rivendicare qualcosa nella vita pubblica e nell'affermazione personale, Rossi aveva, sin da giovane e per l'intera esistenza, praticato sul campo la testimonianza degli ideali in cui credeva. Socialista ed antifascista non aveva avuto esitazione a tradurre in scelte concrete il suo pensiero.  Dal 1944 era passato dall'antifascismo clandestino alla partecipazione, come partigiano combattente sull'Appennino emiliano nelle Brigate Garibaldi, all'azione concreta. Nel corso di questa sua esperienza giovanile, esaltante ma anche struggente, fu imprigionato dai nazifascisti. Un test questo che lo avrebbe fortificato nella certezza della buona causa servita fino alla Liberazione.

Sarebbe stato coerente con quello spirito nelle nuove situazioni della ripristinata democrazia e della Repubblica. In cui da dirigente dell'Associazione dei Partigiani, da militante socialista e da cittadino investito di ruoli di responsabilità amministrativa non avrebbe mai fatto mancare un contributo appassionato ed ispirato da profonda correttezza civile e morale.

Proprio nella primavera dello scorso anno, in occasione del 71° anniversario della Liberazione, era stato insignito, con altri dodici partigiani superstiti, della medaglia del Ministero della Difesa. Lo ricordiamo, ancora, orgoglioso a fianco dell'amico e compagno socialista e partigiano Mario Coppetti, al Palazzo del Governo ricevere dalle mani del Prefetto un riconoscimento i cui tempi la Repubblica forse avrebbe potuto anticipare.

Lo ricordiamo ancora, coerente ma rispettoso del diverso avviso, rivendicare con Coppetti la piena libertà di scelta degli iscritti all'ANPI sulla questione referendaria.

Poi, il declino delle forze ha avuto il sopravvento. L'estremo commiato ha raccolto, oltre che l'apprezzata testimonianza dell'istituzionale comunale, dei sodalizi operanti nella cittadina e dell'ANPI Provinciale col suo presidente prof. Corada accompagnato da altri dirigenti, di numerosi cittadini ed estimatori.

Un così vasto tributo di stima e riconoscenza non poteva non riferirsi, oltre che all'esperienza partigiana, anche al generoso contributo per tanti anni alla vita amministrativa della sua Casalmaggiore.

Egli fu, infatti, per lungo tempo ed in periodi caratterizzati da grandi cambiamenti, presidente della Fondazione Conte Busi. Sarebbe poco sostenere che a quello snodo, capace sotto il suo mandato di proiettare l'apprezzata Opera Pia in una dimensione moderna ed efficiente, Rossi abbia dedicato molto, del suo rigore, del suo entusiasmo, del suo tempo.

Si può dire che in quel decennio, in cui tra l'altro la sede della RSA fu ampliata e rinnovata, egli trascorreva, affidando il negozio alla moglie, gran parte delle sue giornate.

Ne eravamo a conoscenza, ma ce lo siamo fatto ricordare dai compagni che più gli erano stati vicini, l'aneddoto relativo alla “spedizione” presso la sede dell'Assessorato Regionale all'assistenza, retto in quel tempo dal socialista varesino Sergio Marvelli. Rossi, ignorando che già a quei tempi la casta dei potenti era inavvicinabile, si era presentato, diciamo, spontaneamente e non preannunciato, all'ingresso della sede della Giunta Regionale. Dove, ovviamente, venne bloccato l'impeto di un'udienza immediata. Alla vibrata protesta manifestata a suon di “sono stato partigiano e non mi farò certamente intimidire”, l'assessore socialista, richiamato dal tono non esattamente sommesso, uscì dall'ufficio per conoscere quel partigiano non proprio remissivo. E, dato che aveva pure lui militato nella Resistenza, non ebbe difficoltà ad entrare in sintonia con il presidente di Casalmaggiore. Rossi sarebbe tornato nella sua città qualche ora dopo, recando con sé la rassicurazione regionale per l'approvazione ed il finanziamento dell'impegnativa ristrutturazione.

Bisognerebbe aggiungere che Pino unì sempre la profonda determinazione nell'operare al tratto profondamente umano nei confronti degli ospiti della struttura ed al rigore nell'impiego delle risorse. Nell'ambiente della militanza socialista se n'era ben consapevoli; al punto che per facezia ci si rivolgeva a lui come al re del quinto quarto (intendendo che da un pollo usciva un quarto in più).

Questa figura mancherà molto nella vita della comunità.

Ultime in ordine di tempo, ci ha lasciato qualche settimana fa Mirko Rizzini.

Noto e stimato dirigente sindacale e politico di area cattolica. Cui ha reso omaggio, durante le esequie svolte nella chiesa di Chitantolo, numerosi amici, conoscenti e collaboratori. In prima fila gli amici dirigenti della CISL.

Si può dire che il Sindacato “libero” CISL sia nato a Cremona con Zanibelli e Rizzini, di cui, quando nel 1953 l'erede soresinese del migliolismo fu eletto alla Camera, ne raccolse il testimone.

Come si ricorderà la CISL nacque, d'intesa con le ACLI, per separazione dalla Confederazione unitaria ispirata DAL Patto di Roma del 1943 dall'impronta del CLN.

In quella fine degli anni quaranta, dopo il varo della Repubblica e l'esaurimento della solidarietà ciellenista, si andavano separando i destini dell'area cattolica, che interpretava l'orientamento largamente diffuso di prefigurare il futuro italiano nell'ottica occidentale, e della sinistra, che restava ancorata alle suggestioni di un radicale cambiamento.

Ne sarebbe uscito un taglio verticale, che separò antiche solidarietà e consolidate collaborazioni.

La nettezza di tale separazione si avvertì soprattutto nel contraccolpo a livello di rappresentanza delle istanze sociali. In cui, l'appartenenza a due opposte filiere sinergiche ad opposte strategie politiche finì per radicalizzare un già pesante profilo di inconciliabilità.

Le contrapposte strutture della militanza e della rappresentanza, incardinate in campi ideologicamente antitetici, andarono vieppiù divaricandosi in un contesto politico, nazionale mondiale, caratterizzato da una verticale inconciliabilità. Proiettando conseguenze non certamente feconde su una contrapposizione sociale, esasperato dagli effetti delle lotte politiche. Ne sarebbe scaturita una profonda divisione del mondo del lavoro ad ogni livello. Dalla fabbrica alle modalità delle relazioni industriali per finire alla netta separazione dei tavoli contrattuali.

Che ebbe come diretta conseguenza un evidente indebolimento della rappresentanza del lavoro. A distanza di molti anni da quelle lacerazioni, che proiettano ancora oggi le loro ombre su una ricomposizione unitaria mai raggiunta e forse mai completamente perseguita, andrebbe fatta giustizia di alcune vulgate di comodo; tipo l'arrendevolezza del libero sindacalismo alle ragioni padronali. In realtà, la caratterizzazione dei profili passava attraverso una diversa direttrice. Da un lato, c'era il campo sindacale di ispirazione riformista, composto dalla CISL  e dalla UIL, che era ispirato più dal realismo e dal gradualismo. Dall'altro, c'era il campo sindacale della sinistra che ispirava l'azione sindacale ad una prospettiva di profonda trasformazione della società.

Ciò che storicamente non risponde al vero è l'implicita accusa rivolta al sindacalismo cosiddetto libero di aver praticato arrendevolezza a beneficio del fronte padronale.

Certamente, i patti colonici separati non furono una mano santa per gli interessi complessivi dei lavoratori. Ma quelli erano i tempi.

Così inquadrato lo scenario in cui Rizzini si trovò per oltre un quarto di secolo ad operare, si aggiungerà che la CISL cremonese, per quanto ovviamente correlata al campo che si usa definire interclassista e “moderato” (per quanto incluse  profili non certamente remissivi come quello di Scelba), in quei decenni tenne testa come organizzazione e come capacità di mobilitazione all'envincible armada della CdL. Da suoi quadri uscirono più generazioni di dirigenti destinati ad approdare ai ranghi della vita pubblica.

Rizzini, dopo una lunga esperienza ai vertici sindacali (nel frattempo ebbe come interlocutori alla CGIL Chiappani ed Antoniazzi ed alla UIL Bertinelli),  sarebbe giunto, come i cislini che l'avevano preceduto (tra cui Zanibelli e Vernaschi), all'esperienza amministrativa. Nel 1975 sarebbe stato eletto nel Consiglio Provinciale e qualche anno più tardi alla presidenza dell'IACP.

1° foto: Mirko Rizzini

2° foto: Camillo Genzini

3° foto: Mario Coppetti e Pino Rossi mostrano la pergamena e la medaglia appena ritirate

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