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Giovanni Gentile, IL FILOSOFO IN CAMICIA NERA

L'ultimo lavoro dello storico Mimmo Franzinelli

  31/05/2021

Di Redazione

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Leggiamo in questi giorni notevoli recensioni negli inserti “Domenica del Sole 24 Ore” e “Il Venerdì di Repubblica” dell'ultimo lavoro dello storico Mimmo Franzinelli: “Il filosofo in camicia nera. Giovanni Gentile e gli intellettuali di Mussolini”, edito da Mondadori.  

Su Giovanni Gentile è diffuso senso comune anteporre alla conoscenza effettiva della sua vicenda politica e culturale il fatto dell'attentato partigiano per il quale è morto, a Firenze nell'aprile 1944. Con ciò, più o meno volutamente, “si vittimizza Gentile oscurandone le scelte e il ruolo rivestito nel ventennio” mentre “lo si rappresenta come vittima paciosa e imbelle … avallando così un implicito processo alla Resistenza” (dalle recensioni). 

Questo libro è dunque importante perché l'operato e le responsabilità di Giovanni Gentile vengono approfondite e descritte in sé e per sé e su ciò si basa il giudizio storico che ciascuno può trarne.  

Il modo, poi, in cui Gentile è morto è inquadrato nell'atroce scontro che proprio la RSI ed il nazifascismo determinarono dopo l'otto settembre 1943. 

Sono dunque i fatti, i documenti riportati (in parte poco o per nulla conosciuti) a tracciare “questo inedito, a tratti sconcertante, ritratto del filosofo di Castelvetrano” (Il Venerdì). 

Le stesse recensioni ne riportano diversi esempi. 

A partire dal fatto incontrovertibile che Gentile ebbe a dare il maggior contributo a Mussolini per la sua legittimazione e “patina” culturale, offuscando ed invalidando la critica di Croce, fornendo basi per la formazione fascista nella scuola, inducendo gli insegnanti alla sottomissione e lavorando per il mortificante giuramento nelle Università.  

Spesso si minimizza la sua adesione anche alle peggiori aberrazioni del regime, magari portando alla luce sue private titubanze, ma le sue responsabilità pubbliche giunsero ad affiancare in manifestazione un ministro nazista e razzista come Hans Frank (poi giustiziato a Norimberga) che esaltava “... unità di razza e di sangue”.  

Dopo due momenti di pavida ambiguità, nella crisi del 1924 ed in quella del periodo post 25 luglio 1943, Gentile rientrò nel pieno sostegno al fascismo. “... Il Paese torna a Lei” scrive al duce nel gennaio 1925 magnificando il pugno di ferro con cui il regime riprendeva le redini dopo il delitto Matteotti. E nel '43 inneggia alla RSI ed a quello che definisce “condottiero della grande Germania”. 

Come già si è fatto per la presentazione di altre opere di Mimmo Franzinelli, l'ANPI, l'Associazione “Emilio Zanoni”, la Società Filodrammatici hanno in animo, non appena la situazione consentirà di farlo “in presenza e sicurezza”, di invitare a Cremona l'Autore per presentare il libro. Un'occasione questa, pur non volendo confondere i piani, per ricordare l'impegno assunto un anno fa, di approfondire il bel saggio (scritto con Marcello Flores) Storia della Resistenza. 

D'altro lato, è cosa nota che Franzinelli è particolarmente apprezzato dal parterre cremonese di appassionati di storia contemporanea. In forza della sua stretta aderenza ai fatti. 

L'AUTORE 

Mimmo Franzinelli, storico del fascismo e dell'Italia repubblicana, componente del comitato scientifico dell'Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione «Ferruccio Parri», è autore di numerosi saggi, fra cui, da Mondadori: Le stragi nascoste, Squadristi, Guerra di spie, Il piano Solo, Il prigioniero di Salò, Il duce e le donne, Bombardate Roma!, Disertori, Il Tribunale del duce, (con Marcello Flores) Storia della Resistenza, È inoltre coautore dei libri fotografici Il duce proibito, RSI e Fiume. 

Per la migliore percezione del lavoro di Franzinelli pubblichiamo uno stralcio dell'articolo che lo stesso ha recentemente pubblicato su Sole23ore. 

Su Giovanni Gentile, si sono scritte intere biblioteche. Ed è fiorito un genere tra il giallo e il noir sui mandanti italiani e/o stranieri dell'uccisione avvenuta sui colli di Firenze il 15 aprile 1944, ad opera di gappisti comunisti. La parossistica attenzione su quella morte, ha finito per vittimizzare Gentile, oscurandone le scelte esistenziali e il ruolo rivestito nel ventennio. Oggi la memoria del filosofo campeggia in una visione defascistizzata, quasi atemporale, al di sopra delle aspre lotte cui egli prese convintamente parte. 

Eppure una quantità di documenti, inediti o poco noti, consentono di inquadrarlo in una luce diversa, più chiaroscurale rispetto alla vulgata del bonario intellettuale, conciliante e soccorrevole. 

Dal novembre 1922, per oltre vent'anni, in scritti e discorsi incensa Mussolini come «il Duce di un popolo e l'eroe di un'epoca storica». L'ammirazione personale si coniuga col fiancheggiamento politico, in un sodalizio che gli assicura prestigiosi incarichi e un elevato tenore di vita. Il carteggio inedito col dittatore ne rivela la servilità, congiunta a richieste divario genere (anche di natura familistica) e al le implorazioni di udienze a Palazzo Venezia. E conferma, estendendone le dimensioni, il ruolo di consigliere e ghostwriter del Capo (così lo definisce spesso). 

In una sola circostanza Gentile prende cautamente le distanze: a metà giugno 1924, all'esplosione del «caso Matteotti», dimettendosi da ministro della Pubblica istruzione: vicenda sinora conosciuta solo superficialmente, e approfondita per la prima volta ne II filosofo in camicia nera. Superata la crisi di coscienza, il filosofo si riallinea al duce e gli è al fianco nella svolta dittatoriale del 3 gennaio 1925. Da allora, non un tentennamento e tantomeno un discostamento dal regime, sulle guerre d'aggressione come sulla legislazione razziale. 

Gentile è ideologo della guerra (cui si mantiene personalmente estraneo, in quanto riformato alla visita di leva): propagandista di ogni avventura bellica, per la campagna d'Abissinia scrive a Mussolini per conto dei propri figli, proponendone l'arruolamento. 

Volumi e saggi ribadiscono l'avversione gentiliana alla legislazione razziale, ma non risulta una sua sola presa di posizione pubblica contro le persecuzioni. Al contrario: organizza il 3 aprile 1936 un'importante conferenza romana del ministro del Reich, Hans Frank, avvocato personale di Hitler e assertore delle teorie razziste, da lui encomiato per il «movimento spirituale che fa tornare la Germania al proprio diritto», nella «pratica battaglia della Nazione tedesca anelante anche attraverso i miti alla forza che i popoli attingono dalla più fiera coscienza della propria personalità e morale autonomia». Abbigliato da gerarca, siede accanto all'oratore e ne applaude il discorso sul «popolo come unità di razza e di sangue» (Frank verrà giustiziato a Norimberga il 16 ottobre 1946, per l'impulso fornito allo sterminio degli ebrei). 

Nel 1939 fa pubblicare alla Sansoni, casa editrice di famiglia, Che cosa è la massonerìa, delirante opera postuma di Francesco Gaeta (suicidatosi nel 1927) sulla massoneria quale strumento ebraico per la conquista del mondo. Nell'Avvertenza l'editore plaude alla «chiaroveggenza anticipatrice» del testo nel proclamare «la necessità d'una purificazione del clima politico e morale italiano», lieto che un volume «così ricco di ricapitolazioni storiche e di geniali intuizioni, veda la luce in questo nuovo regime d'Italia che ha vigorosamente attuata questa purificazione» (il libro diverrà cavallo di battaglia degli assertori del razzismo: lo ripubblicherà nel 1944 l'ispettore alla razza Giovanni Preziosi per la Mondadori, nazionalizzata dalla RSI). 

Tra i punti sviluppati ne II filosofo in camicia nera vorrei qui indicare almeno i retroscena del Manifesto degli intellettuali fascisti e il lavorio sotterraneo per riaccostare al regime i firmatari del contro manifesto crociano; la rimodulazione gentiliana della storia d'Italia alla luce di Mussolini; l'analisi del suo contributo al Gran Consiglio del fascismo in svariati provvedimenti liberticidi e dell'imponente lavoro alla presidenza dell'Istituto nazionale fascista di cultura; la spiegazione della lotta antigentiliana di vari gerarchi; la ricostruzione del sostegno fornito dal filosofo alla seconda guerra mondiale e il fallimento del suo affiancamento al governo Badoglio; l'esame di come l'ingordigia di cariche ne abbia condizionato l'adesione alla Repubblica sociale, insieme al dramma familiare per l'internamento in un lager del figlio Federico, con i tenaci tentativi di ottenerne la liberazione. Da ultimo, il discorso del 19 marzo 1944 alla riapertura dell'Accademia d'Italia (da lui presieduta), nella Firenze insanguinata dalla guerra civile, con lodi a Mussolini e al «Condottiero della grande Germania».  

Il filosofo in camicia nera non rilegge l'azione di Gentile riscrivendone retroattivamente la biografia alla luce della morte violenta, né tantomeno intende offrire anacronistici argomenti per giustificarne l'eliminazione. Mostra in concreto in che modo, sotto la logica dell'attualismo e del neohegelismo, il filosofo abbia legittimato l'impiego discrezionale della violenza politica. L'impressionante quadro che ne risulta fa riflettere su come un grande intellettuale possa snaturarsi, nella metamorfosi da liberale in illiberale, in collaboratore della dittatura pur di non rischiare l'estromissione dal potere, con un prezzo elevato per il popolo italiano e alla fine per lo stesso Gentile.

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