Diciamo in premessa che chi, per qualsivoglia ragione, si presenti a sostenere i propri punti di vista con un libro in mano e con la volontà di discuterne i contenuti merita, nei tempi correnti, un’ampia apertura di credito.
Se, poi, a fare ciò è un personaggio di notevole caratura che, in aggiunta, è stato, negli ultimissimi tempi, “chiacchierato” come potenziale candidato per la più alta magistratura istituzionale della città, allora c’è una buona possibilità di riscontro delle riflessioni racchiuse nel nostro recente articolo “Senza voler mettere il proverbiale carro, davanti”.
Riflessioni che collocavamo, non già, sic et simpliciter, nei meccanismi della scesa nell’arena elettorale, bensì nell’auspicabile prospettiva di un impulso a radicare la testimonianza civile nel sapere e nella progettualità tipica del riformismo.
E per chiudere lestamente il capitolo di questa doverosa premessa, precisiamo ad nauseam che la nostra testata è completamente avulsa da qualsiasi collateralismo con la politica militante. In quanto tale, non risponde ad altro che non sia finalizzato all’approfondimento ed al confronto.
Certo che ci piacerebbe molto la possibilità di un cambio di fase nella vita pubblica cremonese, suscettibile di restituire alla politica la sua nobiltà ideale ed ai cittadini la sensazione, attraverso il ritorno all’impegno istituzionale di personaggi di rilievo, che valga la pena di lasciarsi coinvolgere.
Volendo chiudere a doppia mandato un argomento che, a causa di una interpretazione distorta, arrischia di farci iscrivere d’ufficio nella lista degli zii del futuribile primo cittadino, consideriamo che l’identikit, nei tempi correnti, del candidato ideale, per qualsiasi livello di competizione elettorale, è racchiuso in un binomio: bassa intensità politica, alta presa simbolica.
In cui, per bassa intensità politica, si intende ovviamente un preteso infimo livello di contaminazione col sistema dei partiti.
Noi riteniamo, invece, che, se vuole uscire dalla palude, ridiventare arte nobile ed essere nuovamente in sintonia con i cittadini, la politica deve elevare la propria intensità etica e culturale.
In ciò i due requisiti non devono affatto essere antitetici.
La nostra ipotesi, espressa con l’animo sgombero da nostalgie e da rancori e per di più in termini poco più che scolastici, fa riferimento ad una avvertita esigenza dell’oggi. Non volendo rubare il mestiere ai profeti e non rientrando più di tanto la selezione delle candidature nel nostro radar, rientriamo immediatamente nel perimetro del preminente indotto culturale della testimonianza di Carlo Cottarelli nello scenario cremonese.
Consideravamo: “Cottarelli sa tutto di finanza e di politiche economiche mondiali, nonché di bilanci statali. È lecito supporre, quindi, che disponga, benché da tempo non operi e non viva a Cremona, anche di rilevanti capacità interpretative della realtà locale.”
È indubitabile che tale auspicio trovi un significativo riscontro nella conferenza, organizzata da Cremona Liberale ed occasionata dalla presentazione del saggio, prefato dallo stesso Cottarelli e firmato dai prestigiosi accademici Marco Ponti, Stefano Moroni, Francesco Ramella, che ha come titolo “L’arbitrio del principe” e come didascalico sottotitolo “Sperperi e abusi nel settore dei trasporti: che fare?”.
Cottarelli ed autori trovano qui da noi un campo vastissimo sia per misurare la vastità della lamentata cattiva gestione sia per interpretarne le conseguenze generanti un inarrestabile declino sia ancora per fornire utili risposte al quesito (già leniniano) del che fare.
Allo stringere, questo è il problema: la regressione del territorio è conseguenza del combinato tra cattivo impiego delle risorse, inadeguata capacità di lettura dei cambiamenti in atto, bassissima intensità di rappresentanza delle strategie per l’aggancio dell’innovazione in chiave di sviluppo.
A livello di dotazione infrastrutturale, che, in una economia evoluta, costituisce il requisito principale, siamo restati al palo. Trasporti su rotaia tecnologicamente inadeguati ed addirittura regrediti dalla gerarchia di priorità assegnata all’alta velocità. Infrastrutturazione viaria ordinaria rimasta, nei suoi assi principali (rappresentati dal collegamento con l’area metropolitana e con le direttrici interregionali per le attività economiche vocate) sostanzialmente quella dell’immediato secondo-dopoguerra. Un’infrastuttura autostradale uscita da tempo dal controllo del territorio e risultata ininfluente dal punto di vista dell’inversione dell’isolamento.
Una modalità dalle promettenti potenzialità, quale è quella navigazione interna, manifestamente osteggiata fino oltre i limiti della trascuratezza quando non dalle spoliazioni (come è avvenuto per le competenze ed il patrimonio del canale navigabile e del porto interno).
Ma qui, signori conferenzieri, i pensieri sarebbero destinati ad allargarsi. A cominciare dai grossi vuoti nel pensiero dei ceti dirigenti che si sono succeduti nell’ultimo quarto di secolo. In cui al rimpianto delle rose non colte va assommata l’irrilevanza nei circuiti decisionali governativi e regionali di un ceto politico incapace di interpretare adeguatamente la rappresentanza della difficile coesione territoriale.
La centralità della “questione padana” trarrebbe sicuramente beneficio dall’ottimizzazione dell’impiego delle risorse pubbliche. Ma determinante sarebbe inquadrare l’inversione di tendenza all’isolamento ed alla marginalizzazione dei territori periferici dell’asse padano nell’affermazione delle sue potenzialità di riequilibrio e di sviluppo come strategia nazionale ed europea.