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Lucia Somenzi

L’immagine fotografica, presumibilmente scattata qualche tempo fa e comunque in età avanzata, dice fedelmente di quanto “Lucia” (come era conosciuta da tutti) fosse stata (e sia rimasta, nonostante il trascorrere del tempo) una bella persona.

  25/12/2016 19:51:00

A cura della Redazione

Lucia+Somenzi

Su di lei ho dei ricordi personali, sedimentati dalla narrazione di mia madre, che, collega di lavoro per tanti anni, me l’aveva fatta conoscere ancor prima che la incontrassi. Prima operaia entrata (eletta e non cooptata coi successivi bilancini da “quote rosa”) e rimasta praticamente fino alla quiescenza nella Commissione Interna (così si chiamava la rappresentanza dei lavoratori officiata delle relazioni sindacali di fabbrica) dell’ATA Pirelli di Pizzighettone. Una cosa non esattamente da poco. L’AZIENDA TESSILI ARTIFICIALI, approdata nell’immediato primo dopoguerra sulle sponde dell’Adda e, va riconosciuto, fortemente sponsorizzata in tutto il Ventennio, dal Ras per eccellenza, aveva, già dagli esordi, nei propri destini la missione di imprimere una svolta di modernizzazione al panorama economico del comprensorio dell’Adda e dell’intero territorio provinciale. Il cambio di passo si sarebbe manifestato nel secondo dopoguerra, quando il gruppo Pirelli, svincolatosi dalla partnership tecnologica della multinazionale olandese ENKA, avrebbe fatto dello stabilimento, posto sull’ex fondo agricolo degli Squintani, l’epicentro di una delle testimonianze più intense e significative dello sviluppo fordista. Sarebbe arrivata a dare lavoro diretto ad oltre 1200 maestranze e ad un indotto difficilmente quantificabile coi parametri contemporanei, ma molto consistente.

La Pirelli di Pizzighettone avrebbe attratto domanda di lavoro manifatturiero e professionalità per un raggio molto più lungo del territorio provinciale; realizzando una sorta di melting pot di popoli italiani e di bravure professionali, destinato ad estendere (in una provincia che, ad eccezione del comprensorio cremasco e di qualche isola, era stata per secoli a prevalente vocazione agricola) una quasi qui sconosciuta tipologia laburista. Quella dei blu e white workers. Una aristocrazia di operai, spesso impiegati in lavori ben retribuiti ma ripetitivi, disagiati e (considerando gli standards di conoscenza della rischiosità) scarsamente protetti, e di tecnici (per la gran parte sfornati dagli istituti tecnici di Cremona) e di impiegati. Categorie, entrambe dotate di un buon potere contrattuale (rafforzato dalla crescente richiesta, in capo ad uno scenario interno in pieno sviluppo, di prodotti chimici industriali). Governare una ammiraglia di siffatte caratteristiche e dimensioni, sempre correlata alla domanda di prodotti, da una parte, e, dall’altra, dalla sfida della tecnologia, non era cosa né scontata né facile. Tanto per il management quanto per quelli che oggi vengono definiti soggetti sociali intermedi. Vale a dire, il Sindacato. Il livello di sindacalizzazione era, di fatto, universale.

Con una forte prevalenza della CGIL; ma anche con una qualificata presenza della CISL. Che, al di là di una stereotipata e di comodo interpretazione di parte, non sempre seguiva una linea di collateralismo e di compiacenza filo-padronale.

Indubbiamente, il pianeta sindacale, se si pone mente alle caratteristiche di quella temperie, si intersecava con quello politico. Sicché le vicende politiche, di tanto in tanto, si amalgamavano con quelle sindacali. Raramente, viceversa! Perché quella cultura sindacale, essendo di ispirazione riformista, era dotata di autosufficienza di pensiero e di azione. Soprattutto, di realismo e di pragmatismo.

Quindi, quel contesto era caratterizzato, a partire dai primi anni cinquanta e per oltre un quarto di secolo, da piena occupazione, sicurezza di impiego, trattamenti economici ragguardevoli e, ultimo ma non ultimo, un welfare aziendale conosciuto (a quell’epoca) solo nel gruppo Pirelli e nella Olivetti di Ivrea. E sconosciuto ai posteri (a meno che non appartenessero alle categorie privilegiate della “partecipazioni”)

Al Sindacato, che era la punta di diamante nel comparto industriale cremonese, competeva, oltre che una forte aderenza alla contrattazione categoriale, anche una contrattazione aziendale impegnativa. Per il controllo dei ritmi di lavoro in una realtà produttiva in cui si stavano sperimentando evidenti rimandi tayloristi.

Lo si deduce, non solo dall’osservazione di quelle vicende aziendali e sindacali, ma dalla conferma offerta dalle memorie del direttore pro-tempore Fresia. Che annotava, rispetto a quei primi anni sessanta (dopo le gestioni Burgi e Vidale, che avevano fatto grande l’azienda) “Il programma della Pirelli Spa prevedeva lo sviluppo di un polo europeo del settore gomma, nel quale dovevano essere protagoniste l’inglese Dunlop e la tedesca Continental…I costi di produzione non furono per me un mistero e alla fine di ogni mese desideravo avere dati di confronto con i piani gestionali…La filatura è un reparto in cui si lavora in continuo 24 ore al giorno per 365 giorni all’anno, che non può essere assolutamente fermato, pena gravi inconvenienti e danni agli impianti” Fuori dalla mura del borgo ed al di là del mare.”.

Come è facile comprendere, si era di fronte ad equilibrio a luci ed ombre. Determinato, da un lato, da un apparato manifatturiero, in possesso di un know how tecnologico avanzato e praticamente di un regime monopolistico nel mercato interno ed oligopolistico in quello continentale. E, dall’altro, da un meccanismo di funzionamento reso delicato dall’obbligo di non concedere pause al ciclo continuo e di mantenere perfettamente efficienti le linee produttive. Pena quel che abbiamo appena letto dal diario dell’Ingegner Fresia e che attingiamo dalla memoria (per averlo sentito ripetutamente descrivere nelle riunioni politiche, nei conversari della quotidianità, in ogni angolo del borgo).

In un siffatto contesto, ripetiamo di luci (prevalenti) ma anche ombre (innegabili), il perno della garanzia del funzionamento del modello era costituito, da un lato, da una predisposizione imprenditoriale alle relazioni industriali capaci di trasfondere (nella sua interezza) il modello fordista/taylorista e, dall’altro, dal riscontro, nell’intermediazione politico-sindacale, della volontà di essere interlocutore per una siffatta impostazione.

I precordi per tale affidabilità erano insiti, più che nell’intelaiatura del sindacalismo ossequiente del regime, nella naturale consapevolezza dei lavoratori che quella fabbrica era lavoro, ma anche benessere e futuro per le loro famiglie.

Mossi da tale consapevolezza i lavoratori, senza gesti eclatanti, avevano salvato la fabbrica (considerata strategica anche dagli occupanti militari) dalla distruzione ritorsiva delle ultime code del conflitto.

Sarebbe stata questa la cifra, dedotta da una feconda condivisione dell’etica della responsabilità, con cui le maestranze, pur non conoscendo Kant, avrebbero connotato il loro versante nelle relazioni industriali.

Senza far sconti all’ “Ingegnere” (piuttosto che al “padrone”). Ma sempre nella certezza che, ferma restando la tutela del lavoro, della vita, della giusta remunerazione, la fabbrica era bene di tutti coloro che vi lavoravano.

Non sempre fu così. Se pensiamo (un po’ ricordando ed un po’ compulsando la stampa “specializzata”) ai numerosi tentativi dell’ala massimalista della sinistra di applicare alle lotte sindacali della Pirelli la linea demagogica e dogmatica.

Tentativi, posti in sordina per molto tempo; ma, come si vedrà, destinati ad intossicare, in sintonia con l’importazione dei canoni ribellistici del “favoloso 68”, anche una realtà sana.

Il modello ne sarebbe stato corroso alle radici; fino, attraverso la fuoruscita dalle linee-guida della sua impostazione, al collassamento. Ci riferiamo alla vertenza-monstre dell’inverno 1970, che avrebbe certificato la prima grande sconfitta sindacale e l’avvio del declino delle basi di sostenibilità di quel modello industriale.

Ricorda l’Ingegner Fresia (che caratterialmente faceva poco per celare un temperamento non esattamente mite) che al rientro, nella sala mensa, era apparsa la scritta “Nino le pecore sono tornate”.

Al rientro dopo un lungo sciopero a tempo indeterminato e dopo una serrata padronale, il clima aziendale era caratterizzato da un misto di senso di sconfitta e di frustrazione (per la maggioranza) e di rivalsa (per i pochi irresponsabili). La scritta beffarda era opera di mani ignote (le medesime che, in perfetta aderenza alla scelta di fiancheggiamento dell’eversione brigatista, da tempo costumavano lasciare minacce anonime nei confronti dei sindacalisti più esposti sul fronte della ragionevolezza).

Ma, per arrivare fin lì il combinato tra il massimalismo sindacale e l’avventurismo rivoluzionario, aveva dovuto protestare quarant’anni di sindacalismo riformista. Di cui la CGIL era stata indefettibile testimone.

Si diceva, con un certo fondamento, che la Pirelli era la fabbrica-paese. Sia perché la gran parte degli abitanti vi lavorava o sperava (come chi scrive) di lavorarvi.

Sia perché, in una temperie in cui le relazioni interpersonali privilegiavano, a differenza di adesso, le cose serie, si sapeva tutto di ciò che ogni giorno avveniva lì dentro o nelle immediate adiacenze. La gente ne era perfettamente informata e si faceva le proprie opinioni. Sui fatti, sulle posizioni da assumere, sulle persone delegate a gestirle.

Non c’erano i social. Ma quel modello funzionava benissimo. Non è un caso se la “delega” a dar corpo a quella cultura sindacale fu riconosciuta per molti e molti anni al vertice locale del maggior sindacato.

Immancabilmente, ad ogni rinnovo della Commissione Interna, risultavano eletti Piero Cabrini, Dario Cipelletti, Virginio Resemini ed, appunto, Lucia Somenzi. Una specie di poker socialista che teneva la barra dell’azione sindacale, in fabbrica e fuori.

A loro si accompagnava un eletto in quota PCI e due in quota CISL.

Praticamente il battesimo politico di chi scrive è avvenuto lì. Anzi prima; quando la mamma, l’8 marzo di ogni anno, reduce dalla festa della donna in fabbrica, portava a casa il pasticcino (di cui si privava) e la narrazione. Del significato della celebrazione e di coloro che l’avevano animata. Tra cui, appunto, Lucia. Che avrei ben presto conosciuto di persona. Ai primi volantinaggi della gioventù socialista. Alle prime riunioni del PSI. Ai primi contatti con la realtà della fabbrica.

Lucia, sempre positiva, sempre mite, sempre fiduciosa e coerente con le proprie idee. Di rispetto e di tolleranza, ma anche di consapevolezza del ruolo.

Aveva cominciato la sua lunga stagione alla Pirelli, come operaia della ritorcitura. Che costituiva il segmento vocazionale per le quote rosa. In quel reparto, al netto dell’ora quotidiana dedicata alle funzioni di componente la Commissione Interna, avrebbe trascorso una vita intera. Sempre con le stesse mansioni e senza sconti. Lei come altre centinaia di compagne. Che, al rientro dalle otto ore in fabbrica (su due turni), dovevano sobbarcarsi il non meno impegnativo lavoro di mogli e di madri.

Nel caso di Lucia, ci sarebbe stato il supplemento dell’impegno amministrativo in Comune e per l’aiuto a tutti coloro che, in difficoltà, si rivolgevano a lei.

Ieri, raggiungendo i suoi compagni Cabrini, Resemini, Cipelletti, Dainesi, Poledri, ci ha lasciato. L’abbiamo accompagnata all’ultima dimora, nel suo paese di Acquanegra. A salutarla c’erano tante persone. Che l’avevano conosciuta in fabbrica, al sindacato (da cui non si era distaccata neanche dopo il pensionamento), al Partito, in paese. C’era la sua famiglia unita, ben consapevole del valore della persona che ci ha lasciato. E che ha voluto essere accompagnata nell’ultimo viaggio dal viatico della rossa bandiera della CGIL. Accanto a sé (come si era molto raccomandata all’infermiera di fiducia della RSA di S. Bassano). Accanto a sé, come è stato per tutta la vita. Ciao, Lucia.

E.V.

 

 

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