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Lo stop and go della riforma amministrativa

I passaggi applicativi della riforma denunciano, senza ombra di dubbio, un rapporto molto conflittuale con la logica.

  01/03/2015 10:51:00

A cura della Redazione

Lo+stop+and+go+della+riforma+amministrativa

L’Eco del Popolo ha ricevuto e volentieri ne dà notizia:

Io partecipo, io scelgo”

Consultazione degli iscritti ed elettori del PD Lombardo in tema di autonomie

DOMENICA 1° MARZO 2015

Ecco i 4 quesiti ai quali sono chiamati a rispondere gli iscritti e gli elettori delle primarie:

1) Sei favorevole all’abolizione delle regioni a statuto speciale?

2) Sei favorevole a ridurre il numero delle regioni?

3) Come si tengono insieme i comuni sotto i 5mila abitanti?

4) In provincia di Cremona i territori possono organizzarsi oltre gli storici confini provinciali?

Come si vota: La partecipazione è gratuita - Si vota una scheda con 4 quesiti sulle autonomie locali - Serve documento di identità

 Dove si vota:

Centro Sociale “Pinoni”, Palazzo Duemiglia - dalle 09.00 alle 12.00 iscritti ed elettori Borgo Loreto, Maristella, Magazzini Generali, S.Bernardo, Zaist

Gazebo, viale Po angolo via Oglio - dalle 09.00 alle 12.30 iscritti ed elettori quartiere Po

Centro Sociale San Felice, via San Felice 20 - dalle 09.00 alle 12.00 iscritti ed elettori San Felice – San Savino

Sede Circolo PD “Ghilardotti”, via Castelleone 7 - dalle 09.00 alle 12.00 iscritti ed elettori S.Ambrogio, Boschetto, Itis, Incrociatello, Cavatigozzi, Picenengo

Sede PD, via Ippocastani 2 - dalle 09.00 alle 12.00 iscritti ed elettori Centro, quartiere Giuseppina, Cascinetto

 Sede PD, via Ippocastani 2 dalle 14.30 alle 18.00 tutti gli iscritti e gli elettori che non hanno votato al mattino

Lo stop and go della riforma amministrativa.

L’inaspettata (nel senso che il PD fin qui continua, non arbitrariamente, ad essere percepito come un aggregato funzionale al leaderismo più che un’entità di associazionismo politico a base democratico-popolare) consultazione di cui abbiamo dato notizia, viene qualche settimana dopo l’election day di ottobre. Con cui una platea di circa 1300 già eletti (nelle istituzioni comunali) aveva espresso il consesso che sostituisce, ai sensi della legge Delrio, il vecchio Consiglio Provinciale.

Da una posizione di totale estraneità agli schieramenti politici, osiamo cogliere un beneaugurante, per quanto flebile, segnale, da parte del maggior partito, di ritorno all’ascolto del suo popolo di iscritti e di elettori.

Avendo con tale premessa, acquisito un diritto se non proprio di tribuna quanto meno di analisi, ci sia permesso un contributo ermeneutico sia del valore dell’iniziativa sia delle conseguenze pratiche che potrebbe avere su una situazione maledettamente complicata.

Dal punto di vista della scansione delle procedure della riforma Delrio, tutto è andato secondo le previsioni ed il nuovo Presidente (Vezzini, Sindaco di Sesto Cremonese) si è insediato contestualmente al Consiglio eletto.

Le deleghe sono state attribuite. Il Regolamento è stato approvato; mentre la Regione ha provveduto, all’interno di una tattica sospensiva che denuncia le difficoltà ad agire e l’incertezza del quadro ordinamentale e finanziario, ad abbozzare le materie attribuite all’ente intermedio (facendo ovviamente per dire) “riformato”.

L’Eco del Popolo aveva, a fine settembre, organizzato un riuscito forum in cui erano state messe a confronto, col contributo di qualificati esponenti della vita amministrativa e legislativa, le percezioni della portata e degli approdi della legge 56 nello scenario locale.

Avevamo anche osato affermare “Con tutte le contraddizioni ed i limiti evidenziati, il mantra riformatore della nuova premiership sembra voler mettere in discussione molte cose nei modelli di governo e di amministrazione.

Molte categorie concettuali ispirate all’immutabilità ed alla paralisi dovranno pur andare (beneficamente) in soffitta.

Osato, sì. Ma abbiamo fatto la ben nota fine di Icaro. E siamo approdati, amaramente, alla conclusione che le suggestioni riformatrici agitate nel dibattito e nelle aspettative si stanno rivelando, se non proprio un’ammuina, sicuramente un’incongrua risposta ad uno scenario deprimente.

Infatti, i passaggi applicativi della riforma denunciano, senza ombra di dubbio, un rapporto molto conflittuale con la logica.

L’IMPASSE DEL RIORDINO AMMINISTRATIVO (legge Delrio)

Dopo le baruffe sulla democrazia mutilata dalla cultura del “one man al potere” e sull’accaparramento (qualsivoglia fossero le prerogative degli eletti) dei posti, aleggia ormai un rassegnato smarrimento. Favorito dalla solita spensierata confusione che, unitamente all’imperativo dell’ io speriamo che me la cavo, costituisce il brodo di coltura di un ceto politico, reclinato sulla propria pochezza progettuale e sulla propria incapacità di leggere la realtà.

Tal che non è arbitrario concludere che la cosiddetta Legge Delrio, già zavorrata ab origine da preoccupanti limiti di visione complessiva per di più mascherati da un profilo comportamentale sbrigativo, finirà solo per buttare per aria degli stracci.

Difficilmente riuscirà ad inserirsi efficacemente nelle linee strategiche in capo a questo corso governativo di “semplificazione” dell’effettivamente elefantiaco apparato pubblico. Con molta probabilità si tradurrà unicamente in un’operazione di alleggerimento della politica e, tanto che ci siamo, di supporto al contenimento della spesa. Operazione in cui non è impossibile intravedere, considerata l’incidenza minimalistica del rientro conseguito, una portata da raschiamento del fondo del barile (tratto tipico delle agoniche economie di guerra). Tale tendenza si aggiunge alle conseguenze scaturenti dalla logica dei tagli non selettivi; suscettibili, come si stanno rivelando, di penalizzare la spesa pubblica vieppiù a valle, alla periferia del sistema amministrativo.

Se in materia di annunci è innegabile che il premier-segretario non lo batte nessuno, è altrettanto vero che l’annuncite sembra arrestarsi sulla soglia demagogica di un mero sanzionamento delle prerogative debordanti di un ceto politico affetto, dalla seconda repubblica in poi, da una bulimia incontenibile.

Tremila scanni provinciali sono tornati ad essere occupati da eletti di secondo livello; ma mutilati delle precedenti prebende, che erano comunque in linea con i trattamenti generosi riservati alla casta e, soprattutto, con la metamorfosi del ruolo istituzionale in una nuova professione.

Se in questa meritoria opera di disboscamento da qualche parte bisognava pur cominciare, alleluia! Ma perché non procedere ora con lo stesso parametro non selettivo anche negli altri comparti della vita pubblica?

Questo effetto mediatico ha realizzato, secondo noi, una performance irrilevante ed ha spostato in termini ancor più irrilevanti il contenimento della spesa.

In compenso ha già prodotto danni incalcolabili nella certezza (che pure non è di questo mondo) di un quadro ordinamentale, di attribuzioni e di spesa.

Che spinge alla logica dell’arrangiarsi e dello scaricabarile.

La definizione delle funzioni, affidata alle prerogative legislative regionali, è approdata, in prima lettura, ad un patchwork in cui nessuna realtà assomiglia ad un’altra. Soprattutto, anche se ciò viene giustificato dall’incerto riferimento governativo, le Regioni si sono saldamente ancorate ad una tattica attendistica.

Di abbastanza nitido c’è, per effetto della Legge di Stabilità (ex DPEF), l’entità del taglio dei trasferimenti dallo Stato alle Regioni e da queste all’ente intermedio. Da qui a dire che la misura del fabbisogno sia congruente all’assolvimento delle funzioni di istituto c’è di mezzo un mare. Infatti, furbescamente, da parte di quasi tutte le Regioni, si tende, una volta fissati i parametri della linea di rientro della spesa e di riduzione degli organici del personale, ad una colossale dissolvenza su chi deve fare cosa.

Aleggia una pesante opacità che fa temere la deriva verso la pretesa di sottrarre risorse al territorio; cui resterebbero praticamente le medesime funzioni con finanziamenti significativamente ridotti e, soprattutto, con l’incombente di ridurre drasticamente gli organici.

Minimo che possa capitare è che la nuova leva di amministratori provinciali non potrà che tagliare pesantemente i servizi. Con conseguenze di un qualche rilievo.

Con il che non ci riferiamo assolutamente ai servizi voluttuari arbitrariamente (do you rember l’Apic, la mostra dei dinosauri, il fondo dei cespiti immobiliari?) cresciuti, in assenza di controlli di legittimità e di merito, con il dissennato generalizzato interventismo dell’ultimo quarto di secolo delle ex Provincie.

Ci riferiamo, bensì, alle funzioni in parte “storiche” ed in parte aggregate per effetto delle deleghe esecutive, che sono andate sedimentandosi, nel corso del tempo.

Persa (trent’anni fa) la sanità psichiatrica e preventiva, mantenuta la competenza sulle strade (implementate dalla politica di dismissione dall’ANAS) e quella sulle scuole superiori (struttura e servizi collegati), resta all’ente di vasta area un carico finanziario che sta mettendo in croce i nuovi gestori.

A cominciare dalla questione del personale.

Per riassumere:

  1. le sorti del cosiddetto ente “intermedio” (per cui, in un contesto propenso alla “semplificazione” istituzionale, sembra tirare una brutta aria) sono state affidate alla riforma del Titolo V (la cui conclusione non sembra immediata)
  2. nelle more del riordino, all’ente di area vasta restano in capo (con una dotazione finanziaria assolutamente insufficiente) le medesime funzioni della Provincia e l’incombente di disboscare organici del personale (19.600 unità a livello nazionale, 2.800 per tutta la Lombardia, 200 per il territorio cremonese)
  3. gli esuberi, in parte assorbibili, come ha considerato il Sottosegretario Luciano Pizzetti, da nuove strutture amministrative (Agenzie nazionali per l’impiego), dovrebbero logicamente approdare agli organici dei livelli istituzionali, superiori ed inferiori, destinatari delle funzioni sottratte (transitoriamente e definitivamente) alla vecchia Provincia
  4. la Regione Lombardia, per restare all’orizzonte di casa nostra, ha, come abbiamo già anticipato, deliberato, sia pure in attesa di conferma legislativa, di mantenere tutte le funzioni (tranne Agricoltura, Caccia e Pesca) in capo all’ex Provincia.

Scaricabarile? Gioco dei quattro cantoni?

ALLE VISTE PEGGIORAMENTO DEI SERVIZI ED INCERTEZZA

Nel frattempo, la sostenibilità dei servizi di trasporto extra-urbani è entrata in fibrillazione (sintomo che verrà curato, come sta effettivamente avvenendo, con un inasprimento delle tariffe ed un peggioramento del già deplorevole servizio): la fatiscente condizione dell’edilizia scolastica è prossima all’inagibilità; il sostegno agli studenti in difficoltà, già insoddisfacente, rischia di creare un’altra piaga intollerabile.

Ma, assurdamente, la Regione Lombardia, che dimostra la più bieca insensibilità nei confronti di tali problematiche, con conseguenze suscettibili di appesantire il disagio sociale, avoca a sé (con un indirizzo poco coerente con un Governatorato paladino dell’autonomismo) un settore (Agricoltura, Caccia e Pesca), che è fondamentale per l’economia delle aree periferiche (ed emarginate) come il Sud/Lombardia.

Resta, ultima ma non ultima, la criticità della condizione-limbo di una, per un territorio già strutturalmente poco florido, non irrilevante aliquota di esodandi. Che neanche gli esausti organici comunali potranno assorbire; in quanto impediti quand’anche lo volessero, dalla legge di stabilità,

Un bel busillis, non c’è che dire!

Si potrà anche recriminare sull’allegrezza di comportamento delle passate giunte provinciali, che, non infrequentemente ricorrendo a procedure selettive “semplificate” dall’ansia delle assunzioni “fiduciarie”, hanno irresponsabilmente appesantito gli organici (e la spesa complessiva dell’ente).

Ma il problema resta e va ovviato (possibilmente, con soluzioni sostenibili e non improduttive).

Rebus sic stanti bus, e non essendo alle viste una provvidenziale safety car, non resta che perorare una eccezionale risposta conseguenza di coesione interistituzionale e civile del territorio.

Senza della quale il riordino amministrativo promesso dal sottosegretario alla Presidenza del CdM Delrio (che è stato a lungo amministratore locale e che dovrebbe essere figura informata dei fatti) è destinato, in aggiunta a sinistri presagi di sventure bibliche sulla saldezza dell’impianto istituzionale, a provocare sconquassi sociali nell’immediato.

Tornando alla premessa da cui siamo partiti (la consultazione degli iscritti ed elettori del PD Lombardo in tema di autonomie) e rifiutando di farci soverchiare dall’assillo delle criticità incombenti, osiamo incasellare l’iniziativa (al di là di un evidente profilo un po’ garibaldino) nella scansione delle risposte da dare all’attuale tormentato scenario.

Che l’impalcatura amministrativa, alla luce dell’incongruità rispetto all’efficienza ed all’immediatezza pretese dal quotidiano confronto con realtà più vaste e, soprattutto, da ineludibili esigenze di rientro dalle logiche dello spending deficit, non fosse e non sia più sostenibile non occorre molto per affermarlo.

Se tale è un incontrovertibile punto di partenza, allora è necessario metterci tutti ai remi (e possibilmente remare tutti nella stesa direzione). Mission? Asciugare un debordante mastodontico ordinamento amministrativo, in cui allignano improduttività ed inefficienza. Facendo, però, salve alcune condizioni.

L’obiettivo riformatore non può prescindere da un impianto in linea con i requisiti (aggiornati ai cambiamenti, già consolidati ed in itinere) per una moderna democrazia. Che sia capace di dare rappresentanza alla cittadinanza ed al territorio.

Inteso, da un lato, come comunità di cittadini muniti della prerogativa di disporre servizi efficienti e correlati ad effettiva sostenibilità e, dall’altro, come agglomerato di attività private e pubbliche, individuali e collettive, da indirizzare permanentemente ad una sintesi strategica di sviluppo.

UN ROBUSTO SNODO RIFORMATORE

La nuova intelaiatura dell’amministrazione periferica, archiviando le suggestioni del passato, deve necessariamente correggere le distorsioni che hanno condotto all’elefantiasi; in cui duplicazioni di funzioni e crescita esponenziale dei centri di spesa hanno costituito la deriva dell’autonomia.

In tale senso la griglia dei livelli amministrativi non può trascurare uno sforzo di armonizzazione e di interdipendenza.

Uno dei quesiti posti alla platea degli iscritti-elettori del PD solleva la primaria questione dell’istituto regionale.

In controtendenza con tale pacifica conclusione, la Legge 56 prevede, come avevamo anticipato nella prima scheda di presentazione del dossier, una ulteriore devoluzione di competenze alle Regioni. Agli enti, come chiosato sin dall’inizio, che sono stati e sono protagonisti della dissipazione nazionale, incapaci di recepire le esigenze di austerità che percorrono la penisola. Centri di spesa che, spesso, operano in conflitto con le esigenze della politica economica nazionale.

Sicuramente, il primo quasi mezzo secolo di collaudo delle Regioni ordinarie ed i primi settant’anni per quelle a statuto straordinario dicono che l’istituto va radicalmente riveduto e corretto.

A principiare dalla distinzione tra ordinarie e a statuto speciale (queste seconde assolutamente non più giustificate da ogni punto di vista).

La Regione era stata concepita dal Costituente e, più tardi, dal legislatore come istituto di decentramento e di rappresentanza territoriale munito di prerogativa essenzialmente legislativa.

Come sia andata a finire, specie dopo la sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione recante, tra l’altro, le funzioni concorrenti, è di fronte agli occhi di tutti.

Gli stessi ambiti territoriali, ispirati da anacronistiche visioni di corta prospettiva, devono essere ridisegnati.

Non si dovrebbe arrivare alle maxi-Regioni; ma indubbiamente, una volta ristabilito il profilo essenzialmente legislativo dell’istituto, non dovrebbe, almeno sul piano teorico, essere impossibile definire un azzonamento ottimale, per omogeneità dei territori e per efficienza/sostenibilità della spesa.

RAFFORZARE LA CAPACITÁ DI PRESIDIO DEL TERRITORIO E RAZIONALIZZARE L’AZZONAMENTO DEI COMUNI

L’altro corno della razionalizzazione dell’amministrazione periferica è costituito dall’unità di base dell’impianto: il livello comunale.

Che deve veder confermata la prerogativa essenziale di presidio del territorio e di erogazione di tutti i servizi, non direttamente attribuiti alle funzioni statali.

Se tale è la riformulazione delle funzioni in capo all’unità minima dell’ordinamento periferico, si può dire che, per come sono organizzati oggi, gli 8.047 Comuni italiani corrispondono a tale visione?

Ed i 115 dell’attuale territorio provinciale vengono stimati congruenti?

Diciamo che non si parte dal nulla. Perché, con le buone o con le cattive, certe visioni particolaristiche stanno cedendo all’ineludibilità di scelte dettate dalla condizione di trovarsi nell’angolo.

Ma, diciamolo francamente, la gestione consorziata dei servizi non può bastare; soprattutto, in una prospettiva in cui il binomio efficienza/sostenibilità dell’offerta di servizi non concederà più deroghe o scappatoie.

Altrettanto francamente diciamo anche che l’aggregazione, mancata sia dal ciclo post-unitario di stampo liberale sia dal successivo autoritario/centralistico, dell’unità di misura dell’autonomia locale sarà destinata sempre a fallire, se non interverrà una radicale discontinuità etico/culturale.

Che, se pensiamo all’intensità con cui, anche da noi, si difende con le proverbiali unghie e denti il mantenimento dei micro-ospedali, dei micro-tribunali, dei micro-uffici postali, dei micro uffici del Giudice di pace, non sembra proprio dietro l’angolo.

Questa visione del piccolo (e nostro) è bello vale tanto per l’organizzazione dei servizi quanto per i confini comunali.

Se vuoi l’ospedale, l’ASL, la scuola, la posta a km 0, devi essere disposto a pensare che i relativi costi di sostentamento siano esposti (come è avvenuto) ad una assurda crescita esponenziale. Per di più, a meno che tu non sia un deficiente, non puoi pensare che la periferizzazione estrema dei centri di erogazione dei servizi, oltre che a costi insostenibili, possa mantenere elevati standards di qualità.

Lo stesso vale per l’istituzione comunale. Lo slogan di un tempo, segnavia della testimonianza civile, perorava “la Repubblica delle autonomie” (che sottintendeva l’autonomia di 8.047 repubblichine comunali).

Così, non funziona più! E prima ce lo mettiamo in testa (i partiti in prima linea, visto che dovrebbero essere muniti di una peculiarità di didattica e di indirizzo nei confronti dei cittadini) meglio é.

Alla conferenza di fine settembre, organizzata da L’eco del Popolo, nei loro interessanti contributi, il sottosegretario Pizzetti ed il consigliere regionale Alloni avevano fornito un’interessante analisi comparativa con i processi riformatori in corso in altri paesi europei.

La Francia, faro per eccellenza del centralismo amministrativo, non si fa mancare, come noi e più di noi, proprio niente. Oltre ai corrispondenti livelli regionali, provinciali, mandamentali, ha un numero di municipi tre volte il nostro.

Neanche l’autoritario, si fa per dire, De Gaulle con la sua V repubblica razionalizzatrice, riuscì, ammesso che lo avesse voluto, ad accorparli.

Ma, come da noi, i riformatori francesi vengono presi a sportellate dal ceto politico locale, dagli interessi particolari consolidati, dalla pigrizia dei cittadini di pensare in termini di razionalità, di sobrietà, di essenzialità.

Volendoci allargare e partecipando idealmente alla consultazione dei democratici, sosteniamo che non solo devono essere corrette le incongruenti gravitazioni entro i confini provinciali dei comuni frontalieri, ma anche quelli stessi dei confini provinciali.

Così come non può essere, per nessuna ragione, ulteriormente scansato il redde rationem dell’assurda articolazione municipale. Una volta che l’istituto comunale venisse rafforzato nelle prerogative e nella certezza finanziaria, il processo di aggregazione territoriale/amministrativa, favorito da incentivi/disincentivi e da tutele certe degli interessi originari delle municipalità accorpande, dovrebbe costituire lo snodo naturale ed il cambio di passo dell’impianto amministrativo.

Assolutamente, per restare aderenti alla consapevolezza della nostra realtà locale, non dovrebbe operare solo il parametro della base minima di popolazione (5.000 abitanti, dice la griglia dei quesiti della consultazione).

Che senso ha questo? Spino d’Adda e Rivolta d’Adda (potremmo dire anche Soresina e Castelleone) hanno entrambi più di quel minimo sindacale di popolazione. Ma, contigui territorialmente ed omogenei lato sensu come sono, dovrebbero continuare ad essere distinti? Od, invece, dar vita ad un’entità municipale, più vasta e suscettibile di attrarre altre entità contermini, per un aggregato civile ed amministrativo capace di esaltare le ampie potenzialità di questi ambiti già molto evoluti?

ATTUALITÁ DI UN LIVELLO INTERMEDIO

Sempre riferendoci al contributo di apertura del dossier, avevamo osservato: “Se la mission è riformare per innovare ed ottimizzare spesa pubblica e servizi, allora è lecito pensare che l’area vasta possa incorporare anche definire nuovi e diversi requisiti di omogeneità territoriale, su cui fondare un efficiente modello di raccordo e di rappresentanza degli interessi e delle vocazioni locali.

Nel nostro scenario non è difficile individuare nella padanità il minimo comune multiplo di coesione. Un parametro che potrebbe dar luogo a scorpori (per le realtà zonali a vocazione differenziata) e a processi aggregativi con realtà attualmente incapsulate in format incongruenti.

Va da sé, quanto premesso, che l’auspicio non possa non incorporare la convinta aspettativa della conferma, nell’organizzazione dell’amministrazione periferica, di un livello intermedio, che, sia pure attualizzato e reso congruo ai cambiamenti intervenuti nella realtà nazionale ed europea, possa costituire un’istanza di raccordo tra il soprastante ente legislativo regionale e la rete amministrativa di base rappresentata dai Comuni.

La collocazione intermedia trova giustificazione nell’ineludibilità di fornire ai territori un ambito omogeneo di interlocuzione e di bilanciamento di poteri tra, si ripete, la Regione e le comunità. Senza del quale, come si è potuto osservare, gli animal spirits del centralismo hanno, sia pure in presenza della vecchia Provincia, finito per prevalere sulle esigenze di equilibrio nella destinazione delle risorse e nelle strategie di sviluppo tra le diverse aree.

La quarantennale esperienza dell’istituto regionale ha, altresì, dimostrato l’impraticabilità del modello centralistico/dirigistico anche nella struttura burocratica.

Il decentramento, alla base della statuizione della Regione come erogatore più vicino ai territori e ai cittadini, si è rivelato un colossale flop.

Un Moloch, afflitto da elefantiasi e da voracità improduttiva di risorse. Se tale impulso, come pensiamo, è congenito, allora diventa conseguente, almeno teoricamente (salvo verifica sul campo), un modello di delega esecutiva per l’espletamento dei servizi sul territorio al territorio: all’area Metropolitana, ai Comuni, all’ente intermedio di area vasta. Che può sicuramente replicare le buone performances delle gestioni consortili intercomunali.

Quando affermiamo “buone performances”, non facciamo agiograficamente di ogni erba un fascio; in quanto sappiamo distinguere tra i servizi aggregati ma di emanazione diretta, e quelli indiretti della municipalizzazione.

Non vogliamo allargare troppo l’orizzonte, ma non possiamo sottrarre all’analisi del riordino amministrativo almeno un cenno all’esigenza di coinvolgervi anche l’indifferibile riforma dell’istituzione municipalizzata.

Essa prese grande vigore, un secolo fa, contestualmente al cambio di passo determinato nella vita politica e sociale dalla stagione delle prime amministrazioni comunali socialiste (guidate a Cremona da Attilio Botti e a Milano dal soresinese Emilio Caldara).

Si può ben dire che abbia rappresentato uno dei pilastri della politica di riduzione del disagio e dell’ingiustizia sociale e della dottrina del municipalismo, quale regolatore sul territorio di un programma di efficienza amministrativa e di rappresentanza civile.

Negli ultimi trent’anni, parallelamente al degrado della funzione istituzionale, anche le aziende municipalizzate (il braccio operativo del muncipalismo) si sono inceppate.

Finendo per costituire una macchina, quasi sempre a base monopolistica od oligopolistica, in cui l’erogazione di servizi è solo il pretesto che ne legalizza l’affidamento.

Dal punto di vista del confronto, tra il modello municipalizzato e quello teorico-pratico della gestione privata, nulla (o quasi) giustifica l’assetto preferenziale: medesima politica tariffaria determinata da gestioni industriali non in linea con il mercato, medesima bassa qualità dei servizi.

Per giunta, aggravate, da un lato, dalla propensione a gestire quegli ambiti di parafiscalità occulta, che, oltre i limiti non più tollerabili, è inibita ai Comuni, e, dall’altro, a praticare una, non dichiarata ma implicita nei comportamenti, funzione supplente dell’abrogato modello IRI.

Le “partecipate” si sono rivelate, il tappeto sotto cui Comuni sempre più in difficoltà con le conseguenze di consolidate male gestioni nascondono cascami di parafiscalità (pagate dai cittadini utenti all’interno di impostazioni tariffarie poco trasparenti) e, ad un tempo, la legittimazione, per un ceto politico disinvolto, per l’esercizio di arbitrarie ingegnerie finanziarie/societarie. Che, affidando al trastullo di un ceto politico una sorta di scatola di “Monopoli”, alterano la trasparenza dell’economia finanziaria e aggravano l’incidenza economica di servizi essenziali per la vita civile e per la sostenibilità sociale.

Suggeriamo al sottosegretario Delrio di allargarsi, in combinato con i ministeri dell’Economia (ex Tesoro e Finanze) e delle Attività Produttive (ex Industria), di allungare lo sguardo alla connessione tra riordino amministrativo e (profonda!) riforma del comparto muncipalizzato. 

 

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